storia vera di Anna T. raccolta da Marco Angilletti
Vivo a sette tocchi di campane dalla chiesa del Santissimo Rosario. La nostra casa ha travi centenarie che sanno di focolare. Porto cucito addosso quell’odore. Dalle nostre parti la gente profuma di camini e stufe a legna senza che per noi sia una vergogna.
Oltre a me e a mio padre, in questa casa vivevano “la moglie del modista” e “il figlio del modista”. Papà era l’unico in questa vallata di paesini siciliani a cucire vestiti e a trattare stoffe buone. Aveva appreso i trucchi del mestiere da una zia e, per quanto possibile, ha sempre cercato di trasmetterli anche a noi. Mio fratello non ha mai voluto saperne nulla: ha rincorso la carriera da medico ed è riuscito ad acciuffarla in una città del Nord. Tornava di tanto in tanto in paese, con quella sciarpa di superiorità stretta intorno al collo. A volte ci scrutava come se fossimo rimasti indietro, senza evoluzione. In particolare quando fissava me, per la sola colpa di aver scelto di non abbandonare la terra e di aiutare papà nel lavoro.
«Quello ti vuole bene, è fatto così» diceva mia madre quando rivendicavo un minimo di dolcezza.
«Ci guarda quasi schifato. Ti sembra bello che provi vergogna per le sue origini?» ribattevo.
«Ormai è abituato alle comodità della città. Cerca di capire pure lui. Figurati se non ci tiene a noi».
Io me ne restavo stizzita, provando sempre a smorzare un focolaio di commozione. Mia madre è sempre stata superficiale, di discendenza, e mio fratello le somiglia molto, per questo lei tendeva a giustificarlo. Papà all’opposto era uno zucchero, agghindato di molestia e valori, tipico degli artigiani. Trascorrevo intere giornate con lui in sartoria, circondati dal buon umore malgrado la fatica.
Quando tornava a trovarci per le feste comandate, mio fratello non metteva neppure il naso in bottega. Ne aveva sempre una: “vi siete accorti di quanta polvere c’è qui?”, “non vi siete rotti le scatole di fare questa vita?”. Mio padre ci restava male: era bravo a difendersi a colpi di ironia, eppure nel tremolio della voce decifravo le ferite di quella continua mancanza di tatto.
C’è da dire che se mio fratello è riuscito ad arrivare dov’è arrivato lo deve ai tanti sacrifici fatti in mezzo a quelle stoffe. Il nostro non era un rapporto di odio. A modo suo, cercava di darmi attenzioni con un regalo che consegnava puntuale a ogni arrivo, con le calamite che mi portava dai tanti viaggi all’estero, con le costanti telefonate per accertarsi della salute dei nostri genitori.
La parte brutta di lui è arrivata in seguito alla loro morte. Già dopo la tumulazione di papà aveva iniziato a insistere per sistemare le carte dell’eredità e ragionare su come spartire i beni. Quando anche mamma è volata via, ogni tenero filo di rapporto familiare si è ingarbugliato in una matassa. «Ora come fai a portare avanti la bottega?» mi chiese.
«Come ho sempre fatto. Secondo te papà aveva la forza di lavorare in questi anni? Facevo tutto io».
«Trovati qualcosa di più sicuro e più redditizio. Chi vuoi che continui ad acquistare qui abiti e cappelli, quando in città trovi qualunque cosa?».
«Proprio qui sta la differenza: le nostre sono creazioni, non sono cose fatte in serie».
«Nostre? Tue, di certo non mie».
«Portano il nostro cognome, quindi appartengono un po’ anche a te».
Ben presto queste conversazioni si sono spostate su un altro piano. Alla messa del trigesimo in ricordo di mamma, rientrati a casa, si è assicurato che la moglie non ci sentisse e mi ha comunicato le sue intenzioni: vuole vendere tutto.
Per un attimo ho sperato che stesse scherzando, invece era tutto vero. A lui non interessa tornare qui, toccare questi muri di pietra che trasudano storie, starsene sulla sedia a dondolo della terrazza a guardare il cielo, esplorare i ricordi racchiusi nella bottega. Non credo sia soltanto una questione di soldi: mi pare che non gli manchi nulla. È una sorta di taglio netto, un severo distacco da questa terra e dal suo passato. Da un po’ di anni, i paesi della nostra zona stanno riacquistando valore, facendo gola soprattutto ad acquirenti stranieri che scelgono di vivere in questi borghi e lavorare a distanza. Si sarà fatto due conti a riguardo. «E io che faccio? Me ne vado a vivere per strada?» ho chiesto con tono fermo.
Mi ha risposto con una lastra di ghiaccio negli occhi. «Non è colpa mia se non ti sei creata un’alternativa a queste quattro pezze».
«Saresti capace di buttarmi fuori da qui?».
«Con quello che guadagniamo dalla vendita ti sistemi altrove. Puoi acquistare qualcosa di più piccolo».
«Io qui voglio stare! Ci sono tutti i nostri ricordi».
«I ricordi te li porti dietro, le travi invece marciscono» ha chiuso senza un filo di pietà.
Non dormo più ormai da giorni. Abbiamo litigato diverse volte finché è stato qui. Quando lui e mia cognata sono ripartiti non li ho neppure salutati.
Un fratello che è disposto a collocarti altrove, quasi fossi un soprammobile. Mi chiedo se sia mai stato davvero legato a noi, a queste stanze. Benedetto carattere, ma si può arrivare a tanta indifferenza?
Che non fossimo il fratello e la sorella perfetti lo sapevo, ma mai avrei immaginato un epilogo così triste. Neppure un briciolo di riconoscenza per essermi presa cura dei nostri genitori in questi anni. Non mi sono mai rivolta a un avvocato, ora però mi hanno detto che c’è il modo di far sentire le mie ragioni ed esprimere la mia contrarietà. Spero di uscirne quanto prima, anche se il più delle volte immagino che questo sia solo l’inizio di un terribile e litigioso futuro.
Vorrei tornare a quando eravamo bambini e io e mio fratello ci nascondevamo dietro le bobine di stoffa per fare impaurire papà. O quando ci rintanavamo sotto il tavolo di lavoro e allungavamo una mano per fare sparire le forbici o il metro a nastro. Avevo l’impressione che quel posto, anche per lui, fosse il luogo più felice del mondo.
La sera mi siedo accanto al fuoco e bevo pianti pungenti. Ogni lacrima è una spina che ferisce ciò che siamo stati e ciò che abbiamo costruito. Le cornici con le nostre foto sembrano avere un’espressione sconsolata ora. Stringo tra le mani l’ultimo scialle che papà ha cucito per me. Mi sembra di sentire ancora il suo profumo tra le filigrane. Lo avvicino al viso, quella morbidezza mi protegge e mi fa sentire al sicuro. “La figlia del modista” non vuole e non può vivere altrove. ●
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