Segreti di famiglia

Cuore
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Una storia vera avvincente che è stata la più votata del n. 38. Ora la puoi leggere qui

Avevo solo sei anni quando, quella sera, zio Leandro prese la parola e strappò via le maschere: da allora non vidi più i parenti di papà. Che cosa era successo? Cosa aveva spinto mio padre a lasciare l’azienda, la città, tutti i suoi privilegi? Lo scoprii solo anni dopo

storia vera di Ortensia P. raccolta da Alessandra Mazzara

La mia famiglia aveva un modo di essere infelice tutto suo. Rilassata negli agi alto borghesi di Villa delle Ortensie (la chiamerò così, anche se il nome era un altro), una dimora ottocentesca con tanto di giardino all’inglese, piscina e domestici, essa godeva di quei privilegi che solo un’incalcolabile disponibilità di denaro consente.I miei nonni, proprietari indiscussi del regno, appartenevano ciascuno a famiglie nobili del milanese, il cui matrimonio era stato combinato per interessi finanziari quando nonna Ortensia aveva solo 16 anni. Quant’era bella! Mite e affettuosa, la sua personalità, però, era stata negli anni frenata dal rigore del marito, ragion per cui solo chi davvero la conosceva sapeva che dietro a quell’atteggiamento distaccato nascondeva un cuore buono.
Nonno Umberto, il capostipite di questo avvantaggiato clan familiare, era a capo di una casa farmaceutica che negli anni aveva imparato gli stratagemmi del mercato, espandendosi prima in Europa, poi perfino oltreoceano, grazie a una manovra ad alto rischio che aveva, però, garantito un affare da capogiro. Uomo pieno di sé e orgoglioso del nome, di poche parole e dai modi solenni e freddi, aveva voluto per i quattro figli maschi un’educazione cattolica rigida presso istituti poco inclini all’accudimento perché, sosteneva il nonno, per dirigere un’azienda di famiglia ci vuole carattere e questo può formarsi solo in presenza di regole ferree e prive di inutili romanticismi. Era lui che aveva imposto in famiglia delle tradizioni che altro non erano che veri e propri dettami di condotta, condizioni senza le quali nessuno poteva ritenersi parte del gruppo: una di queste era l’eredità del suo nome e di quello della moglie. Ogni nipote femmina che vedeva la luce doveva chiamarsi Ortensia. E ogni maschio, Umberto. Ne nacquero sette, tre Umberti e quattro Ortensie, pronti a inorgoglirlo in società e nei club di cui era socio.Nessuno in casa osava contraddirlo, nessuno mai osò sfidare le leggi di quelle regole di famiglia. Era ben risaputo quanto lo snobismo e la naturale altezzosità di nonno non gli permettessero di accettare di non essere esaudito. Quello che nonno Umberto decideva, andava fatto. Quello che nonno Umberto voleva, andava garantito. Quello che nonno Umberto voleva, andava dato.E nonna Ortensia subiva in silenzio. Mai che alzasse la voce, mai che prendesse una decisione, mai che sminuisse davanti ai figli la figura del padre, sottolineandone i difetti. In questo, nonna era una maestra. Aveva, negli anni, creato una sorta di schermo di protezione oltre il quale celava la sua tristezza, pretendendo che tutto ciò che accadeva tra quelle mura, là restasse. E proprio da questo dipendeva la nostra felicità e infelicità. Infatti, se le famiglie felici si somigliano tutte mentre quelle infelici lo sono ciascuna a modo suo, la nostra, come dicevo, aveva un modo preciso e personale di essere infelice: il mantenere i segreti. Nulla in quella famiglia andava rivelato, creando così nel tempo una fitta rete di cose non dette che come catene ci legavano l’uno all’altro, nella filiale obbedienza e nella sottomissione al principio di devozione al nome. Piccoli o grandi che fossero, capitava che alcuni di questi segreti venissero a galla, senza troppi sconvolgimenti. Ma ce n’era in particolare uno enorme, ingombrante, soffocante e opprimente che sovrastava sul più piccolo dei fratelli, mio padre, amato oltre ogni misura dalla madre e con altrettanta passione detestato dal padre. Contro di lui nonno Umberto si era accanito con maggior vigore: per lui aveva scelto il collegio più austero e tetro, l’educazione più rigida, a lui riservava lo scherno e l’indifferenza in casa e un finto rispetto fuori. E lui, il mio papà, giovane uomo dall’animo fragile ne soffriva, ma sempre in silenziosa obbedienza.

 

 

 

Nessuno riusciva a dare un senso a quell’accanimento paterno e che quell’odio fosse dovuto solamente al carattere troppo permissivo e debole di Matteo, era poco probabile. C’era, ci doveva essere, qualcosa di più grosso sotto, per scatenare un astio mal celato, un’antipatia oltre i limiti. Ma, si sa, nelle buone famiglie com’era la nostra è sempre doveroso far finta di niente per apparire al mondo che vive al di là dei cancelli videosorvegliati in perfetta armonia. E, quindi, si stava zitti. E si fingeva una perfezione che non c’era.

Fino a quella cena di Ferragosto. Che ruppe ponti, scoperchiò coperchi, strappò via le maschere. Io avevo solo sei anni e, fradicia dell’ennesimo bagno nella grande piscina ovale, rincorrevo i miei cugini schizzando acqua e cloro qua e là, tra gridolini e dispetti, inseguiti dalla tata che, disperata, avrebbe dovuto già lavarci e renderci presentabili per la cena. I grandi erano già seduti, la tavola sotto il portico perfettamente apparecchiata. La tovaglia di lino bianca ricamata, i piatti di ceramica francese, le posate d’argento, il vaso al centro ricco di ortensie rosa, mentre un leggero venticello faceva oscillare i bordi di pizzo della tovaglia come piccole e leggiadre ali di farfalla.

Quando ciascuno occupò il proprio posto, mentre tre quarti di luna illuminavano il cielo blu e le lanterne accese in giardino conferivano un’aria accogliente a quel piccolo angolo di paradiso nascosto e tutto nostro, mentre la domestica serviva generose porzioni di insalata di mare sui piatti, zio Leandro, il figlio maggiore, si alzò e prese la parola. «Pensate tutti che questa sia la famiglia perfetta. Fratelli miei, ho le prove che non lo è, neanche lontanamente». Lo zio iniziò con queste parole, ma poi non feci caso a cosa disse. Nessuno dei miei cugini ascoltò con interesse. Davanti a noi c’erano i gamberi immersi nella salsa rosa, i calamari e i polpi tra croccanti pezzi di sedano pronti a riempire i nostri pancini famelici.

Che importanza poteva avere per noi quel discorso?

Qualcosa di grosso, però, lo zio Leandro ebbe l’ardire di annunciarlo. Perché ci fu silenzio accompagnato, o forse dovuto, dallo sguardo gelido del nonno. E poi le sedie che caddero per terra, e poi i piatti rotti, e poi le urla della nonna, e poi la tata che ci prese chi per mano, chi per il colletto della camicia e ci portò su in camera, mentre in giardino la lite continuava arrivando a noi in un miscuglio di voci ovattate portate dal vento e ancora illuminate dalla luna.

Neanche un anno dopo quella cena, già avevamo lasciato l’azienda e Villa delle Ortensie, per fermarci per sempre in un paesino a pochi chilometri da Firenze. Una nuova casa con un nuovo giardino, un nuovo lavoro per mamma, un altro per papà. Di nonna Ortensia e nonno Umberto, della villa di famiglia, di quello che era successo quella sera di Ferragosto, di tutto e tutti non si parlò mai più. Il mio passato e quello della famiglia d’origine di mio padre divennero un argomento innominabile in casa.

Che cosa era mai successo? Cosa aveva spinto papà a lasciare l’azienda, la sua città, la sua famiglia, tutti i suoi privilegi?

L’ombra minacciosa di un altro segreto, l’ennesimo, si faceva sempre più pesante.

Per anni, a ogni mia domanda, mi rispose solo il silenzio. La nostra vita andò avanti senza un passato. Per noi, c’erano solo il presente e il futuro. Divenni grande, presi una laurea in Scienze della Comunicazione, un Master in giornalismo e in poco tempo trovai lavoro. Crescendo, non chiesi più di quella parte di vita che avevamo vissuto, non feci più domande sui protagonisti che con noi quella parte di vita l’avevano pure vissuta.

 

Poi, una sera di fine estate, era il 1984, squillò il telefono. Mi trovavo al piano di sopra, nella mia stanza. Avevo 25 anni, il mio lavoro presso una casa editrice e vivevo ancora con i miei, ma non mi pesava. Dalla finestra aperta giungeva il chiarore della sera e l’odore dei mandorli in fiore. Sentii i passi veloci di papà arrivare in salotto e alzare la cornetta.

«Pronto?» lo sentii dire. Poi una lunga pausa. Prese, poi, a parlare sommessamente, mentre io lo immaginavo con una mano a conchiglia sulla base della cornetta per attutire il suono della voce. Mi avvicinai al corridoio del piano superiore: da lì potevo sentire tutto senza farmi vedere.

Silenzio. «Leandro, io non sono come te. Se voi siete riusciti a perdonarla, io non riesco…». Pausa. «Ho chiuso con loro 25 anni fa. È tardi, ormai».

Che zio Leandro avesse sollevato il tappeto e fatto uscire la polvere rimasta segreta da quella sera?

La risposta non tardò ad arrivare e la sera successiva a quella telefonata, ancora una volta dalla finestra aperta della mia camera, comoda sul mio letto e con La valle dell’Eden aperto tra le mani, sentii mamma e papà parlare in giardino.

«Forse, Teo, dovresti andare. Tuo padre è morto da anni, adesso lei è malata e chiede di te…». Nonna Ortensia. Chiusi il libro e spensi l’abat jour sul comodino, avvicinandomi alla finestra al buio, per non farmi notare. «Quella donna non ha colpe. Solo sofferenze».

Mamma parlava e nel frattempo ravvivava la fiamma della candela alla citronella contro le zanzare posta sul tavolinetto in vimini del giardino sul retro, mentre Mary Poppins, la nostra Labrador nera di sei anni, le stava accucciata ai piedi. Papà accese una sigaretta e prese a fumarla avidamente, quasi a morsi. Faceva sempre così quando qualcosa lo turbava. Con una mano poggiata sulla staccionata del portico, dando le spalle alla mamma, fumava quelle dannate sigarette una dopo l’altra ansimando. I grilli e le cicale cantavano canti di ozio e noia nascosti tra le fronde degli alberi, una musica d’estate in un cielo blu tempestato da minuscoli, luminosi diamanti di stelle.

«Dannazione, Laura. Ma non ricordi? Ti rendi conto cosa mi ha nascosto quella donna in tutti quegli anni? Non sai quante volte ho pianto chiedendomi perché mio padre mi trattasse tanto diversamente dai miei fratelli?».

Sì. Era nonna Ortensia l’argomento, il soggetto, di tutto. Avvicinai ancor di più l’orecchio alla finestra aperta.

«Non ho dimenticato nulla, Teo. Ma non pensi che in tutta questa storia a soffrire più di tutti sia stata proprio lei?».

Papà gettò oltre il portico quel che restava della sigaretta, poi si passò una mano tra i folti capelli un tempo neri, ora ingrigiti. «Vado a letto. Non riesco a sopportare un minuto di più tutta questa tensione».

Solo quando non sentii più alcun rumore provenire da giù, presi coraggio e scesi scalza da basso. Dal cassetto della madia della cucina tirai fuori la rubrica di mamma, un librone pieno di fogli e fogliettini strappati e sparsi qua e là. Ne ero certa: in mezzo a quella confusione di nomi e numeri avrei sicuramente trovato da qualche parte l’indirizzo di Villa delle Ortensie. Quando lo trovai per un attimo il cuore mi si fermò. Presi la penna e me lo segnai sul palmo della mano, poi in punta di piedi tornai in camera.

Il giorno dopo ero di fronte al cancello di quella villa maestosa che custodiva un segreto che io adesso volevo a tutti i costi conoscere.

«Chi volete che annunci alla signora?» mi chiese un tizio che a un primo sguardo doveva essere il maggiordomo.

«Sua nipote Ortensia» dissi semplicemente. Un annuncio neutrale. Avevo tre cugine con quel nome, di certo nonna avrebbe pensato a una di loro.

Un cenno del capo e quello scomparve, non prima di avermi fatta accomodare nel salotto principale, una stanza con tanto di caminetto in pietra, quadri, tende e tappeti che trasudavano soldi.

«Sono spiacente, signorina, ma la signora non si sente affatto bene per scendere. Sarebbe così cortese da raggiungerla in camera?».

«Ci mancherebbe».

«Molto bene. Mi segua, prego».

 

 

 

Lo seguii lungo una sontuosa rampa di scale. La camera padronale era a sinistra, dopo un corridoio dalle pareti coperte da ritratti d’un tempo. La finestra era aperta. Entrava un leggero venticello che faceva ondeggiare la delicata tenda panna. Sulla sinistra, un maestoso letto a baldacchino. Lei era seduta su una poltroncina, proprio vicino alla finestra, con una coperta candida sulle ginocchia. Pallida, sembrava una bambina. Il respiro affannato.

«Signora, sua nipote è qui. La faccio accomodare?».

«Sì, ti ringrazio. Puoi anche andare».

Presi un profondo respiro, poi entrai.

«Accomodati, tesoro. Ma dimmi: quale Ortensia sei? Sapete già tutti che non ci vedo più tanto bene, dovreste sempre specificare, quando vi fate annunciare» disse subito.

Presi tutto il coraggio che avevo dentro e dissi: «Ortensia di Teo».

Nonna Ortensia spalancò gli occhi azzurri. Girò il volto e mi guardò.

«Benedetto sia il cielo! Piccola mia, quanto tempo». Mi allungò una mano e io la strinsi. Era ossuta e fredda. «Non sai da quanto attendo di rivederti, mia piccola Ortensia».

Non dissi nulla. Era come se non avessi parole, come se il mio cervello non fosse in grado di connettere.

«Forse, in questi anni, ti sarai chiesta tante volte tanti perché… ma sai, piccola mia, la vita spesso i perché ce li toglie e ci priva della possibilità di dare un senso a ciò che accade».

Poi mi guardò socchiudendo gli occhi, con più intensità, come se stesse cercando qualcosa nel mio volto.

«Hai i suoi stessi occhi» disse infine, stringendomi forte la mano.

I miei occhi sono a metà tra il blu e il viola. Non sono gli occhi di mio padre, che li ha azzurri, come la nonna. E neanche quelli di mia madre, color nocciola.

La guardai confusa. «I miei occhi?».

Nonna sorrise. Dal giardino saliva il profumo dei tanti fiori che circondavano la villa.

«Non li ho più dimenticati. L’ignoto è sempre più inquietante della realtà, Ortensia. E va tenuto nascosto. Perché la verità, a volte, fa più male. Ma sei ancora troppo giovane per capirlo. Per favore, apri il cassetto più grande del comò, tesoro. Sotto le lenzuola troverai una scatola di latta rossa. Portala qui».

Obbedii. Trovai la scatola e tornai accanto alla nonna.

«Qui dentro troverai le tue risposte, tesoro. Ma non prima che io abbia lasciato questo mondo».

«Nonna, io vorrei solo…».

«Shhh. Fa’ come ti chiedo, Ortensia. Capirai tante cose. Più di tutte, che l’amore è libertà, è passione, è vita. Quando lo troverai anche tu, un giorno, decidi con tutta te stessa di viverlo appieno».

 

 

 

Non replicai, ancora una volta incapace e confusa. Abbracciai nonna Ortensia e andai via con la scatola nascosta nel fondo del mio zaino, lasciandomi alle spalle la villa, le ortensie, il maggiordomo, i quadri e i tappeti, l’infermiera, il respiro di nonna, i mobili vistosi, l’ondeggiare della tenda, mentre sentivo crescere dentro di me una forte inquietudine. Cosa voleva dirmi nonna con quella frase?

Il treno mi riportò al presente. A quello che ero e che avevo, lontana dalle mie domande.

Nonna Ortensia morì una settimana dopo. Mio padre e mia madre non parteciparono ai funerali. La seppellirono in una cappella, di proprietà della famiglia da più di un secolo, accanto a nonno Umberto e insieme al suo segreto.

La sontuosa villa fu venduta, l’eredità equamente suddivisa. Quando finalmente aprii la scatola, capii ciò che mai avrei immaginato.

Poi, il tempo passò veloce, inesorabile si portò via prima papà, poi mamma, poi i miei zii. Con la mia parte di eredità comprai la villetta, dove adesso vivo insieme a una colonia di gatti rossi, neri e tigrati che vanno e vengono a loro piacimento, facendomi compagnia.

Adesso sono vecchia anch’io. Non mi sono sposata, non ho figli. Resto l’unica custode di quel grande segreto di famiglia che adesso ho tra le mani: centinaia di lettere tra nonna Ortensia e Gabriel, l’autista privato del nonno.

Le ho lette tutte, ne conosco ogni singolo dettaglio. Sono lettere piene di un amore puro, disinteressato, nato di nascosto ma non per questo meno vero, che aveva dato un frutto, una prova della sua grandezza. Mio padre.

Un amore che aveva dato a nonna la possibilità di essere finalmente amata. L’ultima lettera è la più sofferta. Gli amanti erano stati scoperti, l’origine di quel bambino paffuto dagli occhi viola era venuta fuori in tutta la sua ovvietà, l’orgoglio di Umberto ferito. Era stato lui, ancora una volta, a decidere. Gabriel sarebbe sparito dall’azienda, avrebbe perso il lavoro e nonna l’amore. L’unico, vero amore della sua vita. L’uomo che sapeva apprezzarla. Che l’amava davvero.

Ciascuno in questa triste storia era stato ferito a modo suo e a modo suo provava a far rimarginare la ferita. Ogni uomo ha dentro di sé segreti che teme di rivelare perfino a se stesso, specialmente quando hanno a che fare con l’amore, il sentimento meno controllabile che possa esistere.

E se gli uomini si distinguono da ciò che mostrano, si somigliano in ciò che nascondono. Come tutti noi, schiacciati da tutto ciò che non è mai stato detto.

Sono ancora una volta sul treno verso Milano.

Ho con me un mazzo di ortensie freschissime, colte nel mio giardino, e le lettere che la nonna scrisse al suo amato Gabriel, il padre di mio padre. Mio nonno. L’uomo che mi ha dato il viola degli occhi.

Ho deciso di bruciarle e voglio spargere le ceneri sulla tomba di nonna, perché possa tornare al suo Gabriel. Ortensia e Gabriel. Gabriel e Ortensia. L’amore li aveva uniti, la vita divisi. Ora tocca a me, all’ultima Ortensia, legittimare quell’amore e chiudere il cerchio.

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