“Si chiamerà Francesco” di Giulia Sansoni è la storia vera più apprezzata del n. 23 di Confidenze. Ve la riproponiamo sul blog
Ho sempre pensato che un filo straordinario leghi la mia vita a quella del Santo di Assisi. Mi ha aiutato a vincere il mostro dell’anoressia. E ha esaudito il desiderio impossibile di una persona a me cara
Storia vera di Martina C. raccolta da Giulia Sansoni
Ricordo molto bene quando avvertii la prima volta una sensazione difficilmente spiegabile se non come una sorta di mano protettrice fra le mie. Avevo 17 anni e mi trovavo a Venezia. Da quattro anni non toccavo cibo nel senso letterale del termine. Mi reggevo in piedi grazie a una flebo al giorno. «Anoressia grave» dichiarò l’ennesimo professore consultato in tempi in cui non si sapeva nemmeno cosa significasse quel termine. «La porti a fare un lungo weekend, prima di un ricovero ormai inevitabile se non vuole perderla» sentenziò infine il medico a mia madre.
«Voglio andare a Venezia» dissi quasi tra me mentre sul taxi mia madre piangeva, senza possibilità di risposte verbali, senza controllo, senza più reazioni. Non capivo ancora quanto male le stessi facendo, né quanto ne facessi a me stessa perché non c’era lotta con quel Mostro. Mi aveva portata via all’improvviso, con una forza che andava oltre le mie possibilità umane e psicologiche. Non me lo spiegavo nemmeno io. Non me ne accorgevo quasi. Di certo capivo che era il Male. Che il Male era dentro di me. Mi faceva orrore, ma non potevo fare altro che guardarlo negli occhi. Partimmo due giorni dopo, io e mia madre. Lei, mai stata religiosa, tentò l’ultima spiaggia attraverso un’amica molto benestante, la quale fece allestire espressamente per noi un ponte di barche che dall’isola della Giudecca – dove abitava e dove ci aveva ospitate – raggiungesse la chiesa della Salute affinché lo percorressimo in ginocchio per voto. Era tale l’angoscia di quei giorni che nessuno si pose il problema che nelle mie condizioni non ce l’avrei mai fatta, io per prima. Il pomeriggio precedente all’evento, volli fare un giro da sola per la città. Una città che amavo e che conoscevo bene. «Te la senti?» mi chiese la mamma sapendo che la mia autonomia era davvero al limite. Ormai perdevo spesso i sensi e in famiglia non si fidavano a lasciarmi sola nemmeno un minuto. «Non preoccuparti, girerò un po’ qui intorno, non uscirò dalla Giudecca» le risposi mentendo. In realtà, presi un traghetto e raggiunsi Venezia per camminare tra le calli senza una meta. Volevo star da sola, perdermi. Sentivo la morte dentro, ci dialogavo, quasi la corteggiavo. Mi attirava e mi respingeva, ma era sempre lì. Con la mano avvinghiata alla mia. Imboccando un vicolo stretto, mi trovai davanti a un piccolissimo panettiere. Il profumo caldo di pane appena sfornato invadeva anche l’esterno della vetrina. Sapeva di casa, di vita, di amore. Qualcosa da troppo tempo lontano da me. Fra i tanti pani esposti, mi attirò un vassoio con una montagnetta di rosette rustiche e un cartello con la scritta “Pane e uva, il cibo di san Francesco”.
Entrai, ne acquistai una («Una sola? Ma è piccolissima…» commentò la cassiera) e, in strada, ne staccai un angolino e me lo infilai in bocca. Da quattro anni era il primo piccolo frammento di cibo che ingoiavo… Mi osservavo masticare al di fuori di me stessa, sdoppiata, senza pensieri, spinta da qualcosa di estraneo alla mia volontà. Naturalmente, il mio stomaco, ormai atrofizzato, non accettava quell’intrusione. Fui costretta a sedermi su un muretto lottando con la nausea e, straordinariamente, la vinsi. Quello fu il primo piccolo passo verso la luce, verso l’uscita dal tunnel. Nessuno di noi, infatti, il giorno dopo riuscì a percorrere in ginocchio il ponte votivo perché quella stessa notte, nel dormiveglia, persi i sensi e credetti di morire. Invece ripresi coscienza, svegliai mia madre e le chiesi subito del cibo: «Devo mangiare, sto morendo». Ricordo che all’una di notte la mamma mi cucinò della carne, l’alimento che sensibilmente avrei più rifiutato: «Questo ti darà forza». Mi sforzai, decisa a mangiare, ma lo stomaco questa volta non mi seguì.
Il professore, interpellato all’alba, disse che dovevo rientrare immediatamente a Milano: lo stimolo spontaneo ad alimentarmi era fondamentale, ma la strada era ancora lunga. Ci spiegò che, all’inizio, avrei dovuto assumere ogni ora porzioni minime e semi-liquide per riabituare il mio corpo a mangiare. Mi ci volle un anno per riacquistare una quasi normalità alimentare e il primo chilo di peso, ma non tornai più indietro. A Venezia avevo definitivamente sconfitto il Male. Lo sentivo, anche se mi era rimasta la sensazione di un certo “pilotaggio”. Fu la percezione di essermi aggrappata al volo a una mano tesa più forte di quella della morte che mi rese automatico associare i fatti di Venezia alla mia recente, libera, frequentazione della chiesa dei Frati Cappuccini dove ogni tanto mi fermavo all’uscita della scuola, affascinata dall’uomo Francesco e dalla scelta di vita, oggi, dei suoi più umili seguaci. La consapevolezza di non essere stata da sola a vincere il mio Male divenne via via profonda, mi spinse a studiare la storia di Francesco, e l’estate seguente andai per la prima volta ad Assisi. Dopo quella visita ce ne furono tante altre nei luoghi dove lui aveva vissuto, dall’Umbria al Lazio alle Marche. La lezione spirituale che trassi fu semplice, come semplice è stato il messaggio di Francesco: il ritorno alla base del Vangelo, alla parola di Cristo, all’Amore dell’uomo per l’uomo. È solo l’Amore per l’altro che può fare miracoli. È solo quando rinunci a te stesso per Amore che si può vincere tutto. Così, in una delle mie visite alla Porziuncola, la minuscola chiesina ristrutturata e adorata da Francesco, grata di essere stata salvata dall’Amore, decisi che se mai avessi chiesto qualcosa, non l’avrei mai fatto per me stessa, ma per chi ne avesse avuto bisogno. Ora ci si può credere o meno, ma mettendo in pratica quella mia promessa, ebbi evidenti conferme del filo straordinario che mi si era svelato a Venezia. Una fra tutte, la più eclatante, riguarda la nascita di mio nipote Francesco.
Un dicembre di quasi 25 anni fa, mentre stavo preparando la valigia per andare ad Assisi, mi telefonò mia sorella. Era disperata. Piangeva. Sapevo che si era sottoposta a inseminazione per poter avere un secondo figlio, e mi annunciò stralunata che gli ovuli attecchiti erano tre. «Ti rendi conto? Come faccio con tre neonati? Il medico dice che si può procedere con un aborto selettivo, ma io non voglio». Era frastornata e la capivo: non era più una ragazza e per avere il suo primo bambino aveva rischiato di morire a causa di un trattamento ormonale estremo. Tuttavia ora Non so come le dissi: «Cerca di stare tranquilla. Io sto andando ad Assisi». Partii con quel pensiero fisso. Arrivata ad Assisi mi fermai subito a Santa Maria degli Angeli. Non sono una praticante. Recitare versi e salmi mi sembra falso, non aiuta la meditazione e il raccoglimento. Così, dentro alla Porziuncola, accesi un cero e pensai: “Lei non vuole abortire”. Una settimana dopo mia sorella si sottopose a un’ecografia di controllo che evidenziò un fatto, a detta del ginecologo, molto raro: ben due dei tre ovuli erano stati riassorbiti dall’utero materno. Mia sorella mi chiamò felice e commossa: «Capisci? Vivranno dentro di me per sempre». Non mi stupii. Solo le dissi: «Dovrai chiamarlo Francesco».
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