Davide mi piaceva, è sempre stato il più ambizioso del nostro gruppo di amici, mirava a diventare un grande fotografo e a fare soldi. Oggi lo ritrovo una persona diversa e mi viene voglia di conoscerlo meglio
STORIA VERA DI BEATRICE S. RACCOLTA DA GIOVANNA MORINI
Sto mangiando un’insalata alla tavola calda di fronte all’ufficio in pausa pranzo quando mi chiama la mia amica Milena. «Davide è tornato» annuncia. La sorpresa mi si deve leggere in faccia perché le colleghe sedute al tavolo mi lanciano un’occhiata incuriosita. Ma solo a casa, quella sera, mi concedo di ripensare a Davide: si era unito da poco al nostro gruppo di amici e mostrava una sicurezza in se stesso che a volte rasentava quasi l’arroganza.Tutti noi avevamo dei sogni, allora: Milena progettava di diventare stilista di moda, Carlo giornalista, Franco, abile con il computer, si figurava di emergere come un nuovo Steve Jobs e io vagheggiavo di fare la coreografa. Ma Davide era il più determinato. Voleva diventare fotografo e al corso di fotografia che frequentava era ritenuto il migliore. Con i capelli dal taglio accurato e le giacche impeccabili sembrava un giovane ma- nager più che un artista. Eppure le sue fotografie erano belle.
«Riuscirò a guadagnare bene con le mie foto» sosteneva. Concentrato sui suoi progetti non dava troppa confidenza a nessuno, eppure, sempre più spesso, mi capitava di pensare a lui. Quando suo padre si trasferì a Milano lui decise di seguirlo per iscriversi a una prestigiosa scuola di fotografia. Dopo la sua partenza seguitò a darci notizie con bre- vi mail e messaggi. Poi lentamente smise di scriverci.
Lo squillo del telefono mi distoglie dai pen-sieri. Riconosco immediatamente la sua voce «Ciao Beatrice» mi dice. Tutti mi chiamano Bea, soltanto lui ha sempre detto il mio nome per intero.
«È da molto che non ci sentiamo, Davide» rispondo a disagio. E i ricordi mi trascinano via, a quel giorno di tanti anni fa. Era maggio, Davide sarebbe partito alla fine del mese. Quel sabato avevamo deciso di passare una giornata al mare e mentre gli altri si attardavano con l’aperitivo io scesi sulla spiaggia. Ricordo tutto di quella sera: il vento tiepido, l’odore della salsedine… E la mia emozione quando scorsi Davide che scattava foto ai gabbiani. E in quell’i-stante, guardandolo, realizzai quanto mi sarebbe mancato dopo la sua partenza. Di colpo mi sentii smarrita, vulnerabile di fronte a lui.
«Che cos’hai?» chiese Davide voltandosi a guardar-mi. Non riuscii a rispondergli, poi mi accorsi che mi stava fotografando.
«Che fai? Sono spettinata» mi schermii a disagio. «Sei perfetta» mormorò lui con una tenerezza im-provvisa nella voce, come se di colpo avesse lascia- to cadere le barriere che si era costruito intorno. Un attimo dopo le sue labbra si posarono sulle mie. Un bacio atteso, dolcissimo.
Ma poi il suo sguardo tornò distante. «Vediamo di non fare pasticci, Beatrice… Sto per partire» mor-morò scostandosi da me.
«Sì, certo, hai ragione» gli risposi in fretta, prima di correre via.
I ricordi svaniscono. Davide mi sta spiegando di essere tornato per mettere in vendita la casa di suo padre. «Venerdì sera ci vediamo con gli altri al ristorante, spero ci sia anche tu» aggiunge.
Venerdì quando entro al ristorante i miei amici sono già lì, manca soltanto Davide. Ci salutiamo con le solite battute scherzose, ma c’è un vago disagio tra noi. È come se il ritorno improvviso di Davide ci avesse costretti ad ammettere che nessuno di noi quattro ha tenuto fede ai progetti di un tempo.
Milena ha dimenticato album e matite quando ha vinto un concorso al Comune, Carlo si è messo a lavorare nello studio notarile del fratello, Franco i computer ha finito per aggiustarli e anche io ho rinunciato a fare la coreografa per un impiego in un’agenzia di assicurazioni.
«Il grande fotografo è in ritardo» commenta Carlo con ironia.
Sto per chiedergli di non usare quel tono quando vediamo arrivare Davide. Non è molto cambiato, però adesso ha i capelli più lunghi e veste casual. Ci sorride vedendoci.
Mentre servono gli antipasti lui racconta di aver viaggiato a lungo e di essersi poi stabilito in una cittadina in Toscana. Svela anche di essere divor-ziato, di non avere figli e di essere rimasto in buoni rapporti con la sua ex moglie. Parla lentamente, con modi gentili e pacati che un tempo non aveva.
«Ci aspettavamo di vedere le tue fotografie sul Na-tional Geographic» esclama Franco, riassu-mendo il pensiero di tutti.
Davide scuote il capo. «Mi dispiace di avervi delusi, ragazzi, ma la mia vita è un po’ diversa da quella che immaginavo». Spiega di la-vorare in un negozio di libri e di tenere un corso di fotografia presso un’associazione culturale.
«Così hai fallito anche tu» mormora Milena con una sfumatura di commiserazione nella voce. Davide alza le spalle in un gesto vago, ma non sem- bra dispiaciuto e neppure umiliato. Mi rendo conto che c’è qualcosa di diverso in lui, come se la sicurezza spaccona e un po’ superficiale che ostentava un tempo adesso invece sia originata da una convinzione ben più radicata, intima e profonda.
È tardi quando lasciamo il ristorante. Con i suoi nuovi modi pazienti, Davide si offre di darmi un passaggio. Poco dopo lo guardo guidare nelle strade ormai deserte; tra noi un silenzio strano, colmo di parole non dette.
«Ti sei sentito a disagio, prima?» non posso fare a meno di chiedergli.
«Quando ho dovuto ammettere di non avere realiz-zato i miei progetti? Niente affatto» mormora. Aggiunge che un tempo la sua idea di successo comprendeva fama e ricchezza.
«Mentre ora so che il vero successo è una cosa molto diversa. Ma dim-mi qualcosa di te».
Gli parlo del mio lavoro, di un paio di storie senti-mentali finite male. Ci salutiamo in fretta davanti al mio portone, ma quella notte continuo a pensare a lui. Quando il giorno seguente mi chiama per chie- dermi di uscire, io accetto subito.
Passeggiando nel parco Davide mi parla del suo lavoro in una libreria specializzata in testi sulla fotografia. Vorrei chiedergli perché la sua vita non è andata come aveva progettato, ma lui mi precede. «Dopo aver frequentato quella scuola a Milano ho capito che le mie foto mancavano di anima. Che non sarei mai diventato un grande fotografo. Questa scoperta mi ha quasi annientato» sussurra.
Poi racconta di avere viaggiato. «Mi mantenevo con lavori saltuari. Ho riparato staccionate in Inghilter-ra e ho lavorato in una fattoria in Africa, col tempo ho capito che il vero successo non risiede nel dena-ro e nella fama, ma semplicemente nel sentirsi appagati, nell’amare quello che fai».
Mi parla della tranquilla cittadina in Toscana dove vive: «La mattina vado al lavoro in bicicletta, ho degli amici. E tutto quello che faccio mi rende fiero e felice».
Ascoltandolo capisco da dove vengono la serenità e la sicurezza che ho avvertito in lui.
«Ricordi la foto che ti scattai sulla spiaggia? Mi capita spesso di riguardarla. Forse è stata l’unica volta che ho messo l’anima in una fotografia» mor-mora a un tratto. Restiamo a guardarci in silenzio. È lui il primo a parlare: «Non sai quante volte avrei voluto chiamarti… Temevo non volessi più saperne di me, Beatrice».
Mi piace ascoltarlo, mentre dice il mio nome. Mi piace essere qui con mille parole non dette tra noi e l’emozione che mi fa battere forte il cuore.
«Tra un mese nella cittadina dove vivo ci sarà una mostra di fotografie dei miei allievi del corso. Perché non vieni a vederla? Potresti fermarti qualche giorno» mi chiede.
«Mi piacerebbe» rispondo io.
Certo che ci andrò. Senza programmi. Per conoscere il nuovo Davide e il suo vero successo. ●
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