Tutto il tempo del mondo

Cuore
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Avevo paura di deluderla e misi le mani avanti, le dissi che non stavo con una donna ormai da molto tempo, ma lei rispose che era nella stessa situazione: «Prendiamo quel che viene» mi disse, «che ci importa?»

Storia vera di Enrico T. raccolta da Melissa Farandari

Mia figlia mi ha chiesto come l’ho conosciuta, “questa Martina”. Ho tagliato corto e le ho detto che era una vicina di casa. Non mi andava di spiegarle i dettagli in una telefonata intercontinentale; tra poco, finalmente dopo mesi, verrà a trovarmi, e le racconterò per bene com’è andato questo strano incontro che ha segnato la mia vita.
Erano i primi giorni di ottobre, faceva ancora caldo e ne approfittavo per andare spesso a pescare. Tra poco non avrei più visto la mia bella spiaggia sconfinata, orlata di pini marittimi e dune di alghe che odorano di salmastro. Una mattina, però, con fastidio trovai occupata la piccola insenatura dove mi sistemavo di solito. C’era una donna che dipingeva assorta, seduta su un seggiolino; era vicina ai sessant’anni, come me, e come me portava semplici ciabatte infradito. Aveva i capelli lunghi di un bel color rame, indossava il pezzo di sopra del costume e un paio di pantaloni di tela rossa. Piazzai le mie canne da pesca poco distante, con il pensiero distratto da quella signora stravagante; quando istintivamente voltai lo sguardo verso di lei, mi sorrise. «È di qui? Sto cercando un buon ristorante per stasera e vorrei un consiglio» mi disse.
«Posso aiutarla, sì. Di dov’è lei?» risposi impacciato.
«Vengo da Torino. Ma la città non fa più per me. Troppo rumore. Troppa fretta, mi viene l’ansia. Così ho preso in affitto una casa qui vicino. Se mi trovo bene, resto. Sono in pensione da poco e sono libera».
«Dipingi?» le chiesi scioccamente, ma passando al tu.
«Da quando sono ragazzina. Ma avrò venduto dieci quadri in tutta la mia vita, e solo ad amici. Sono Martina, a proposito… », rise.
«Io Marco. Abito qui, ma ancora per poco. Tra un paio di mesi parto».
«Per sempre? Cambi vita?» chiese con dolcezza.
«Esatto» risposi. Il suo silenzio attento mi incoraggiò a continuare. «In questo paese non c’è più niente per me. Così me ne vado a Capo Verde. Lì ho una coppia di amici che gestisce un villaggio turistico, mi hanno offerto un lavoro che qui non ho più. Ho solo 62 anni. Non ho niente da perdere, ormai».
Mi sorrise comprensiva e iniziò a raccogliere i pennelli, la tela, il cavalletto. «Te ne vai? Di già?» dissi in modo troppo avventato.
«Non vorrei, ma ho una fame. È ora di pranzo».
«Aspettami qui allora». Abbandonai le canne da da pesca appoggiate ai loro trespoli e andai al panificio vicino a prendere pizza e bibite, portai tutto in spiaggia e mangiammo lì, al sole; parlare era facile con lei, e ridemmo molto. Mi piacciono le donne della sua età che portano i capelli lunghi, e che vestono con semplicità, come le ragazze. Anche lei ha la giovinezza dentro, pensavo guardandola. Mi disse che le dispiaceva salutarmi, ora che il sole se n’era andato e faceva troppo freddo per restare. «Anch’io sto bene con te. Sono sempre solo» risposi un po’ a disagio.
«Domattina sarò di nuovo qui» ribatté, «se ci sei anche tu possiamo ripetere il picnic».Tornammo sulla spiaggia la mattina dopo, e quella dopo ancora. Ero contento quando già dalla strada vedevo la sua figura morbida intenta a dipingere. Chiacchieravamo un po’, poi stavamo in silenzio a fare le nostre cose, infine mangiavamo. Mi sembrava di conoscerla da un sacco di tempo, e mi dispiaceva quando il sole iniziava a scaldare meno, ed era ora di tornarsene ciascuno a casa propria. Il quarto giorno, finalmente, osò quel che non avevo osato io: «Ho freddo, io andrei. Se anche tu ne hai abbastanza di pescare, che ne dici di venire a casa mia? Ci beviamo un caffè, ci riposiamo. Il mare mi stanca, dipingere mi stanca» mi disse senza timidezze. Sorrideva sempre. Era luminosa, il mio contrario. Sono scuro di occhi, di capelli e spesso di umore. Sono stato sereno solo per i diciassette anni di matrimonio. Accettai il suo invito con una specie di sollievo. La sua casa era un nido accogliente e sereno, nonostante un po’ di disordine. «Se vuoi riposarti puoi stenderti sul divano, io finisco di mandare un’e-mail di là e tra poco ti faccio compagnia». Mi sdraiai sul sofà. Pensai soddisfatto a come mi guardava: come una ragazza attratta da un uomo. E anche lei mi piaceva. La sua aria più selvaggia che curata, il corpo abbronzato, e l’energia e la gioia che le venivano dal dipingere le conferivano una bellezza fatta di vitalità e autenticità, che preferivo a mille visi ben truccati o aggiustati. E poi le sue rughe mi mettevano a mio agio, visto che neppure io avevo più vent’anni. Avevo voglia di abbracciarla, di passarle le dita tra i capelli lunghi. Mi svegliai che era già sera. Dovevo essermi addormentato, altro che baciarla. Che figura meschina. «Ben svegliato! Ti faccio un bel caffè?» disse, e aveva di nuovo quel sorriso. Aveva raccolto i capelli con una pinza, c’era la televisione accesa e mi sentivo come non mi succedeva da anni: sereno, e persino felice. In una casa abitata e calda. Non come nella villa che avevo appena venduto, che avrei lasciato tra un paio di mesi al nuovo proprietario.
«Dormivi così di gusto che ti ho lasciato tranquillo» disse.
«Era tanto che non riposavo così bene. Sono agitato ultimamente. Sarà la partenza, ormai ci siamo».
«Può essere» disse lei semplicemente, e bevve il suo caffè. Poi ci fu silenzio. E poi mi avvicinai a lei, e l’abbracciai. Era morbida, cedevole sotto la mia stretta. Da quell’abbraccio di cui sembravamo tutti e due affamati sembrava che non volessimo più scioglierci. Sollevò il viso verso il mio e la baciai a lungo. Si lasciò spogliare a poco a poco; avevo paura di deluderla e misi le mani avanti, le dissi che non stavo con una donna ormai da molto tempo, ma lei rispose che era nella stessa situazione: «Prendiamo quel che viene» mi disse, «che ci importa?».
Fu bellissimo fare l’amore, ma ancora di più mi gustavo quel nostro stare vicini, dopo, come se ci conoscessimo da un sacco di tempo, a tenerci caldi i piedi e raccontarci delle nostre vite.
«Dovevo conoscerti prima! Quasi quasi mi dispiace partire» dissi qualche ora dopo, mentre ci gustavamo una frittura di pesce.
S’irrigidì: «Ma è proprio perché parti, sai, che ho deciso di lasciarmi andare. Con te non corro il rischio di innamorarmi, visto che te ne vai tra non molto. Non voglio più vivere con un uomo. Forse, neanche mi interessa avere una relazione».
«Non ti interessa o ti spaventa?».
«Non so. Ma non voglio tornare a spiare i segni dell’umore di un compagno. A sentirmi in colpa se passo il tempo a dipingere anziché a mettere a posto la casa. Tutta la vita ho fatto quello che volevano gli altri. Ora voglio mettere al primo posto me stessa».
Feci un mezzo sorriso. Ma ci rimasi male. Chi le diceva che  io non avrei rispettato il suo desiderio di libertà? Non avevo avuto il coraggio di chiederle di dormire insieme, e lei non me lo aveva proposto. Ci eravamo lasciati con l’amaro in bocca, un’ombra che aveva oscurato il pomeriggio insieme, così intenso e bello. Ci eravamo dati un appuntamento vago per l’indomani, in spiaggia, ma  all’ora solita non c’era. Mi misi a pescare ma ero nervoso, le lenze si incagliavano continuamente sul fondo, Martina non arrivava e ormai era ora di pranzo. Forse ero stato troppo insistente e si era ritratta? Mi convinsi che non le piacevo, forse era un’illusione pensare di poter vivere una storia come fossimo stati due trentenni. Infine la chiamai sul cellulare. Mi rispose quieta, sorridente: «Mi sono svegliata ora Marco, sei sulla spiaggia? Aspettami che ti raggiungo». Che bello quando la vidi arrivare con le sue ciabattine infradito, e la pizza calda in mano. «Pronto per il nostro picnic?» disse raggiante. «Stanotte però» aggiunse sorridendo «voglio riposare bene: ti va di dormire a casa mia?». “Se non ti sembra troppo impegnativo”, pensai polemico. «Perché no» risposi invece, fingendo distacco.
Non ci lasciammo più. Li ricordo come giorni bellissimi quelli. Facevamo l’amore appena potevamo, ci sentivamo due ragazzi e l’apparente stravaganza della nostra avventura in età matura ci legava ancora di più. Lei mi dava un senso di famiglia che mi faceva stare bene. Vivevamo a casa sua, ci piacevano le stesse cose: leggere il giornale ai tavolini di un bar, giocare a carte se pioveva e starcene nella stessa stanza, lei a lavorare a maglia e io a leggere riviste di pesca. «T i sento mia, è strano» le dissi una volta. E lei mi ripeté che non voleva più essere di nessuno. Che aveva deciso di essere autonoma, almeno una volta nella vita. «Mi dispiace, perché con te sto davvero tanto bene. Non ho neanche più voglia di partire».
«Non dire così. E poi non tutte le relazioni devono sfociare in una coppia, a volte regalano molto anche se durano poco» filosofeggiava.
Qualche settimana prima della mia partenza mi disse che sarebbe andata a trovare sua sorella, a Torino. Al suo ritorno io sarei stato già a Capo Verde. Che beffa! Avevo incontrato una donna che mi piaceva davvero, ma era arrivata troppo tardi. Il giorno della sua partenza mi chiese di accompagnarla alla stazione. «Allora chiamami, quando sei sulla tua isola lontana» mi disse, già sul vagone. Eravamo rimasti d’accordo che mi sarebbe venuta a trovare a Capo Verde, ma sapevo che una volta distanti saremmo stati assorbiti dalle rispettive esistenze. «Tra poco chiudono le porte, amore. Devo andare». Amore. Era la prima volta che mi chiamava così. Lo trovai crudele. «Anch’io ti amo» le dissi, travolto  da emozioni contrastanti. Il capotreno fischiò e la vidi scomparire. Rimasi solo, sul binario deserto. Di nuovo quel silenzio, come prima di lei. Quel dolore dentro, come una mancanza di senso. Il cuore mi martellava nel petto: mi ero reso conto che era in coppia che davo il meglio di me stesso, mentre da solo vinceva l’apatia, lo sconforto. Forse questo incontro mi era servito a capire che avevo bisogno di una nuova compagna, che era il momento di iniziare una nuova vita. Un’ora dopo, mentre passeggiavo sul lungomare, squillò il cellulare e pensai felice che fosse mia figlia. Era Martina invece, e singhiozzava: «Marco è successo un disastro» disse tra le lacrime. Mi allarmai moltissimo: «Ma dove sei?».
«Sono qui, alla stazione. Sono scesa due fermate dopo, e ho ripreso un treno al contrario ». Ero senza parole. «Non ce la facevo» spiegò. «Mi è venuta l’ansia senza di te. Non mi piace per niente l’autonomia senza di te, così sono tornata». Non sapevo che dire, ero spiazzato: «Ferma, ferma che vengo subito a prenderti in macchina» riuscii a finalmente a dirle. «E poi?».
«E poi andiamo da te, no? Se vuoi, ovvio».
«Che gioia! Ma… la tua Capo Verde?».
Che me ne importava, di Capo Verde, era lei che volevo. Avremmo fatto progetti nuovi, insieme, avevamo tutto il tempo del mondo. In fondo al cuore lo avevo saputo da subito che lei era destinata a essere mia, e io suo. A sessant’anni, sissignore. Ecco, è questo che racconterò a mia figlia, appena la riabbraccerò. Che cosa straordinaria è stata avere la sensazione di un’esistenza da iniziare, e di un amore che ti scombina i piani. Ma quasi più bello, questa volta. Più caldo, più consapevole. Più per sempre – o almeno così spero.

Testo pubblicato su Confidenze 15/2016.

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