“La madre è una specie di Nostra Signora che ci impedisce di essere selvaggi e di urlare, tiene le nostre emozioni al loro posto. Sta a noi, quando lei se ne va, concentrarci nello sforzo di continuare a far finta di essere maturi, nessuno lo è, e l’essere orfani è un alibi tentatore, giustifica il fatto che non smettiamo più di piangere. Ma smetti. Smetti di piangere, adesso.
Stiamo invecchiando, Denise. E moriremo. Se, prima della morte, ci fosse concesso del tempo per valutare ciò che abbiamo fatto delle nostre vite, credimi, non conteresti quello che sta nella cassaforte, perché non ti servirebbe più a niente. Per il bene di quelli che rimangono, la cosa migliore è distribuire in vita tutto ciò che abbiamo conquistato di materiale, affinché nessuno litighi per quello che non ha importanza. Tua madre non ha avuto questo tempo, è morta rapidamente, ma so che lei stessa si prenderebbe questo incarico, per non permettere che voi litighiate in questo modo.
Più avanti, Denise, nell’ora di fare un bilancio, il valore non starà nelle grosse cifre, la contabilità sarà un’altra: quanti amici? Quanta felicità? Quanto amore? E tuo fratello avrà un peso in tutto questo. Perché sono rari ed eterni quelli che ci hanno visto crescere. Sono loro che meritano di testimoniare sia il nostro arrivo che la nostra partenza. La partenza è sempre molto solitaria.
Ma belle, vivere bene non è cosa da dilettanti. Prenditi la responsabilità di chiudere definitivamente questa inimicizia sterile, questo danno emozionale tanto nocivo alla pelle e all’umore. Non sei una bambina, sei una donna. E una donna deve saper discernere cosa sono, effettivamente, una sconfitta e una vittoria. La sconfitta è quando guadagniamo sugli altri, ma destiamo da noi stessi”.
Perché si scrive? Qual è il fine di questa operazione così antica e così futura? Oggi si potrebbe affermare che in molti casi la funzione è solo economica e ‘spettacolare’ (nel senso dell’esporsi a un pubblico), che molta confusione alberga nello scrivente, uomo o donna speranzosi di raggiungere attraverso la scrittura una centralità protagonista nella propria vita e nel mondo.
Tutto può essere e molte sono le sfumature dell’editoria, tonalità che vanno dall’industria dei best seller costruiti a tavolino alla sartorialità minuziosa di chi con l’ago si punge in continuazione e sulla carta da ricamare di parole piega schiena e cuore.
Martha Medeiros appartiene a questa seconda scuola, ti consegna un manufatto impalpabile, delicatissimo, di rara precisione e deliziosa eleganza (vi consiglio di leggere anche l’altra sua opera tradotta nel nostro paese, Lettino). Tutto quello che volevo dirti è una raccolta di lettere, d’amore, d’odio, d’amicizia, di dolore, scritte da mogli, amanti, figli, madri. Lettere che raccontano storie slegate le une dalle altre ma che ci consegnano un panorama fittissimo eppure preciso in ogni singola fattezza delle fasi della vita di ognuno di noi. Bellissima è la musicalità che spinge a leggere le lettere ad alta voce, sentirsi le parole rotolare tra lingua e palato come caramelle, come fiele, come pane, come latte tiepido.
Perché si scrive? Si scrive per imparare a raccontarsi e ad ascoltarsi, si scrive per non dimenticarsi di se stessi e di chi si ama, si scrive per lanciare un grido d’aiuto e per consegnare al mondo, grande o piccolo che sia, la storia del nostro sentire, del nostro osservare e del nostro amare.
Scrivere una lettera è romanzare le nostre ore, è incastonare esistenze che si sfiorano, che tendono mani timorose e braccia che conservano lo spazio per stringere forte, ritrovare, accogliere, ridere, piangere, sussurrarsi promesse.
Un libro incantevole. Poetico. Vivo.
Martha Medeiros, Tutto quello che volevo dirti, Cavallo di ferro
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