Storia vera di Grazia D. raccolta da Elena Vesnaver
«Sai cosa mi sto chiedendo? Se tu mi hai mai amato, Olivia, ma amato sul serio, di quell’amore che ti riempie la vita e non lascia spazio per molto altro. No, credo di no. Mi hai amato, ma a modo tuo, senza perderci la ragione».
Come al solito Diego parla troppo e troppo in fretta, accatastando parole, rispondendo da solo alle sue domande; una volta lo consideravo, più che un difetto, una mania che faceva tenerezza, ora mi fa perdere la pazienza e basta.
Siamo seduti al tavolino di un bar, l’ha detto lui che bisognava festeggiare, anche se a me, festeggiare un divorzio, non mi sembra molto per la quale, però Diego è così, cerca sempre di darsi un tono, di fare l’uomo superiore, ecco, l’uomo di mondo. Peccato che non lo sia per nulla, ma ormai è un problema solo suo e ancora dieci minuti della mia vita glieli posso regalare.
Eccoci qua, allora, divorziati, io ho i documenti in borsa, lui li tiene sparsi sul tavolo, mai stato ordinato, fra la mia limonata e il suo caffè e lo so che finiranno irrimediabilmente macchiati, ma non credo possa avere molta importanza, a questo punto. I giochi sono fatti ed è un sollievo.
«Mi hai mai amato?».
Mi scappa un sorriso e lo soffoco nel bicchiere, non per altro, potrebbe offendersi, Diego è sempre stato permaloso, ma fino allo sfinimento, eh, roba da prima elementare e lo so che i miei sorrisi lo feriscono, l’ultima cosa che voglio, tra l’altro, solo che io riesco a vedere il lato ironico della vita e lui per nulla. Carattere. Oltre al fatto che sua madre lo ha viziato e gli ha fatto credere di essere eccezionale.
Credo che sia questo che mi ha colpito, la prima volta che l’ho visto, come fai a non notare uno che è tutto diverso da te?
«È colpa dell’altro. Assolutamente».
Io stavo lì, seduta alla mia scrivania, nell’agenzia assicurativa di mio padre, con aperto davanti un fascicolo che parlava chiaro su chi aveva colpa o meno e quel bel tipo che mi stava di fronte pretendeva di convincermi che sì, magari lui non aveva rispettato la precedenza, ma era l’altro automobilista ad avere torto. Andava troppo piano, così continuava a ripetere, troppo piano e lui non era riuscito a calcolare bene. Calcolare cosa? Ancora adesso, dopo tanti anni, non lo so e mio malgrado, mi viene da ridere.
È colpa dell’altro. Diego è una vita che scarica responsabilità ed errori sul resto dell’umanità, eppure me ne sono innamorata lo stesso e penso sia successo proprio perché un uomo così non lo avevo mai incontrato nella mia vita, non era come mio padre e mio fratello, per esempio e loro, infatti, non lo hanno mai accettato. La guerra, una vera guerra si è scatenata quando ho detto che lo avrei sposato e non si è mai placata del tutto, si è solo trasformata in una tregua sempre sul punto di rompersi.
Diego?
Diego non se ne è mai accorto, oppure ha finto di non accorgersene perché, tanto, a lui non gliene importava niente.
«A cosa pensi?», mi chiede.
Ha sempre quest’ansia, Diego, che la gente lo dimentichi e sarebbe felicissimo di sapere che penso a lui. Questa è una colpa soltanto mia, però. Per anni ho finto che lui fosse al centro dei miei pensieri e non lo era, ma non perché non lo amassi, semplicemente avevo mille cose a cui pensare, oltre a lui, cose tipo il lavoro e i figli, tipo me stessa, anche.
Butto lì che c’è una grana in ufficio.
«Non hai altro in testa che il lavoro, tu», brontola e si imbroncia come un ragazzino.
Probabilmente ha ragione.
Sarà che il mio lavoro mi piace, che nell’agenzia ci sono cresciuta, che ho studiato legge apposta, che non mi pesa e non mi è mai pesato, anzi, avere per collega mio fratello e litigarci per una pratica. Diego non ce l’avrebbe mai fatta, lo so e per questo, anche se avevo accarezzato l’idea, non gli ho mai proposto di lavorare con me e gli ho permesso di svolazzare da un lavoro precario all’altro, felice, a lui va bene così. Cosa farà, adesso? Sono tentata di chiederglielo. No, meglio lasciar perdere.
E però l’ho amato questo pazzo ragazzo senza regno e senza radici, l’ho amato davvero, con tutta me stessa, come i nostri figli, che continuano ad adorare il padre inaffidabile che si dimentica delle promesse e poi arriva carico di scuse e di regali e riesce sempre a farsi perdonare e nemmeno io capisco come. Forse perché è sincero, in quel momento è sincero.
Anch’io l’ho perdonato, quella volta di Luisa, per cui so come va.
Quella volta lì è andata che non me la contava giusta. Era una sensazione, niente di più, per il resto era il solito Diego che ripeteva di amarmi e si arrabbiava se lo trascuravo, secondo lui, naturalmente; però c’era quella sensazione, leggera, ma che mi inquietava, sfuggente, come lo sguardo di Diego quando parlava con me, in quel periodo.
Poi ci fu la settimana bianca che non volle passare con noi, dicendo che aveva un lavoro nuovo e doveva dimostrare di essere all’altezza e bla e bla e bla. Ammetto di aver accettato la situazione senza fare troppe storie, ancora adesso mi rimprovero di non avergli detto che doveva venire e basta, ma pure io avevo bisogno di qualche giorno di quiete, io, i figli e una pista da sci, senza avere intorno Diego che si comportava, al solito, da ragazzino esigente. Andava bene anche a me e mi ci sono adagiata.
Poi l’ho visto. Qualche giorno dopo essere tornata a casa, mentre andavo a prendere un caffè con un cliente, ho visto Diego che passeggiava mano nella mano con una giovane donna che lo guardava adorante e lui chiacchierava sorridendo, il solito fiume in piena.
Anche se non mi andava, lo affrontai subito, la sera stessa e ancora mi ricordo la sua espressione smarrita, era chiaro che non sapeva cosa fare, come affrontare e alla fine fece come al solito e diede la colpa a me. Mi disse che Luisa, così si chiamava la donna, non significava niente, che l’aveva conosciuta in palestra e che le si era avvicinato perché lei aveva quegli occhi stupendi fissi su di lui con venerazione. Proprio così la definì, venerazione.
Ovvio che era colpa mia, io non lo avevo mai guardato in quel modo, se lo avessi fatto, lui non mi avrebbe tradito e non sarebbe successo quello che era successo.
Comunque la lasciò, non fece molta fatica. Mi imposi di pensare che era stato tanto semplice perché amava me, ma credo che la risposta giusta sia che non amava lei. È la stessa cosa? Non proprio.
«Isabella dice che questo fine settimana sarebbe meglio se i ragazzi non venissero. Dobbiamo andare a trovare i suoi genitori», dice, come se si levasse un peso dallo stomaco e poi mi fissa, per vedere come reagisco.
Isabella è la sua donna nuova, l’ultima di una lunga serie e ha tutta l’aria di voler essere quella definitiva. Secondo me ce la farà. Lo comanda a bacchetta e lui sembra contento, visto che lei gli toglie anche la responsabilità di scegliere.
Continua a spiarmi, si prepara a sentirmi dire le solite cose. I figli hanno bisogno anche di un padre, le promesse bisogna mantenerle, io mi sono organizzata già, quando comincerà a essere un uomo sul quale si può contare?
Quante volte le ho ripetute queste parole? Infinite, ma oggi non lo farò, non le dirò, sono stanca, stanca di discorsi inutili e se lui non vuole i ragazzi questo fine settimana, pazienza.
Mi verrebbe quasi da dirgli che Patrizia, la grande, stava già mugugnando perché voleva andare al cinema con le amiche, altro che a casa del papà e suo fratello Flavio mi ha detto che gli piacerebbe andare in pizzeria, ma Isabella odia la pizza e così non se ne sarebbe fatto niente. Mi verrebbe voglia di dirgli che ce la caveremo benissimo, che lui non è indispensabile, ma non posso, gli farei male e così gli dico che stia sereno, che non importa, che ai figli parlo io; lo difendo, ancora una volta, gli faccio da scudo contro il mondo e allora come pretendo che sia diverso?
«Perfetto, tutto a posto così».
Mi guarda, io faccio cenno di sì con la testa, lui si alza, fa un sorriso esitante e mormora qualcosa, qualcosa tipo ci vediamo, ci sentiamo, non so e io resto lì, a guardarlo che se ne va e a chiedermi cosa sento.
Chiamo il cameriere e ordino un caffè, voglio stare qui ancora cinque minuti in pace, a fare niente, un lusso che non mi capita spesso perché Diego ha ragione, il mio lavoro è tutto, l’ho detto anche prima, no? Il mio lavoro, i miei figli, me stessa e la mia vita è piena, ho bisogno di poco altro, nemmeno un amore mi manca, un uomo da cui tornare, sto bene così, davvero.
Una volta, non mi ricordo chi, forse un’amica, mi ha rimproverato di avere un cuore troppo libero e io mi sono messa a ridere. Un cuore libero? Io? Ma se dentro c’erano Diego e i bambini e per altro non esisteva spazio! Sul serio la gente apre la bocca senza ragionare. Però.
Però questa cosa non mi è mai del tutto uscita di mente, ho dimenticato chi me lo ha detto, ma le parole no. Un cuore troppo libero. Diego sarebbe d’accordo, immagino, però lui non fa testo, sarebbe d’accordo con chiunque gli permettesse di scaricare su di me tutta la colpa per la fine del nostro matrimonio.
Ecco il caffè, ne ho bisogno per affrontare il resto della giornata.
Evidentemente sto invecchiando. Anni fa riuscivo a far fronte a tutto senza bisogno di aiuto e ora di caffè me ne farei portare un secondo per riprendere la mia vita con le carte del divorzio in borsa.
Mi avevano avvertito che è, comunque, un trauma, mica lo avevo creduto. Un cuore libero, appunto, come volevasi dimostrare, che non vuole permettersi di avere paura.
Ho affrontato tutto, anche le donne che sono arrivate dopo Luisa. Eh sì, nonostante le promesse e i giuramenti, Diego ci è ricascato puntualmente, io puntualmente scoprivo tutto e lui chiedeva perdono, per poi ricominciare tutto daccapo. Sono stata io a darci un taglio, alla fine, io a dirgli che forse era meglio se lo lasciavo libero. C’è da ridere, l’ho protetto fino alla fine, l’ho fatto sentire un grand’uomo anche in quella situazione, ma io ho spalle buone, potevo sopportare, lui no, lui ha bisogno di queste stupidaggini per non stare male.
«Cosa ti importa se sta male», ha sentenziato mio padre, mi ricordo.
È sciocco, però mi importa. Mi importa ancora adesso, guarda un po’.
Nonostante i tradimenti, i lavori sballati, i guai dai quali ho dovuto tirarlo fuori, ormai non ero più una moglie, ero una madre, eppure, secondo lui, non l’ho mai amato a sufficienza.
Certo, non lo guardavo come lo guardavano le sue innamorate, come se fosse un eroe, un uomo meraviglioso. Io ho sempre visto mio marito per quello che è, irresponsabile e infantile, eppure l’ho amato lo stesso, ho amato i suoi difetti, pensa un po’, che confessione da farsi, davanti al secondo caffè.
Meglio se vado, ora, non posso passare la giornata seduta in un bar a pensare a quello che è stato e a quello che sarebbe potuto essere soltanto se. Adesso pago e vado.
È una bella giornata, posso andare in agenzia a piedi e respirare ancora un po’, prima di ributtarmi nel mio solito ritmo, prima di riprendere la mia vita. Bella giornata, piena di sole e con un vento leggero che spettina gli alberi, ma solo un pochino; se sabato è bello così, prendo i ragazzi e andiamo a farci un picnic, piace a tutti e tre mangiare panini in un prato e poi fare quello che ci pare, leggere un libro, o giocare a pallavolo, o guardare semplicemente i giochi del sole fra i rami degli alberi. Diego si è sempre annoiato, invece e così abbiamo smesso di andarci.
Povero Diego, ha talmente paura delle pause, gli prende il panico. È sempre come se dovesse dimostrare chissà che cosa, di esserci, ecco, di esistere, di avere anche lui un posto nel mondo, se solo avesse lasciato perdere quest’ansia di essere splendido, be’, saremmo stati tutti più felici.
«Grazia».
La voce di Diego mi fa trasalire, non come la sua mano sul mio braccio, però. Da quanto tempo non ci tocchiamo più, a parte una stretta di mano per pura cortesia? Da quanto non ci sfioriamo più, non sentiamo più la nostra pelle che si scalda vicino a quella dell’altro? Talmente tanto che non mi ricordo più, però so che era bello.
«Per quello che vale, Grazia, mi dispiace e lo so che sono io ad aver sbagliato, ad aver buttato il buono e il bello che c’era fra noi. Mi dispiace, ma sono fatto così, la mia vita continuo a sprecarla e tu non sei una che incassa e sta a guardare, per questo non ti chiedo di riprovare. Non servirebbe a niente».
Mi dà un bacio leggero, così leggero che mi sembra di averlo immaginato, proprio all’angolo della bocca e poi va via, veloce, senza voltarsi, attraversa la strada e sparisce nel traffico.
Va bene, è ora di tornare in ufficio.
Sulla porta incontro mio padre che mi lancia uno sguardo ansioso e mi chiede se è tutto a posto.
Certo che è tutto a posto, per quanto un divorzio possa essere un modo di mettere tutto a posto; comunque io sto bene, come stavo bene ieri e come starò nei giorni che verranno. A papà dico anche che Diego ha ammesso di essere in colpa e che gli dispiace e l’espressione spaventata che gli si dipinge sul viso mi fa sorridere.
«Mica ti ha infinocchiata di nuovo, vero? Mica ci torneresti insieme? Va là, va là, che quello non cambia. Figurati».
Mi siedo alla mia scrivania, accendo il computer, controllo un appunto. Sì, sabato o domenica vado con i ragazzi a respirare un po’ di aria libera, ah, devo avvisarli che non staranno dal padre, altrimenti arrivo a casa, li trovo con le borse pronte, che ogni volta pare che si debbano portare dietro mezza casa e poi hai voglia a musi lunghi. Adesso gli telefono.
Va là, che non cambia. Papà ha ragione, Diego non cambia, non può cambiare, Diego è fatto così e l’ho amato per quello che era. Buffo, vero? Molto buffo. Ancora più buffo è che lo amo ancora, nonostante. Lo amo e mi piacerebbe, Dio mio, quanto mi piacerebbe, essere capace di buttare via la mia ragionevolezza e tentare ancora, riprovare, dirgli, ok, amore mio, sono qui, vediamo cosa succede questa volta.
Mica ci tornerai insieme. No, papà, certo che no, eppure mai come oggi il mio cuore libero mi pesa nel petto, mai come oggi vorrei essere la donna innamorata che Diego desiderava, quella che rischia, quella che si fa male. No, papà, non ti preoccupare, non lo farò.
Meglio se lavoro un po’.
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