Un dono inatteso

Cuore
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Li ho trovati in una mattina di Natale, Pallino e Fabrizio: uno scricciolo di pelo con gli occhi blu e un affascinanate e burbero veterinario. Sono stati il regalo insperato che mi ha fatto tornare a sorridere alla vita

Storia vera di Rachele T. raccolta da Simona Busto

Natale, una parola che ho imparato ad accogliere con un sospiro. Ogni anno mi chiedevo se fosse più un cruccio o una gioia vedere il fatidico 25 dicembre avvicinarsi sul calendario. Quando ero bambina lo vivevo con un’aspettativa esagerata, che immancabilmente portava con sé il sapore della delusione. Una figlia di madre casalinga e padre operaio, con tre fratelli ancora piccoli, certo non poteva aspettarsi doni fastosi che le facessero illuminare gli occhi. Ma poi alla fine erano davvero i regali quello a cui aspiravo?
Forse mi sarebbe bastato che mio padre non crollasse nella poltrona alle due del pomeriggio, stravolto per la notte che aveva dovuto trascorrere alla fonderia, le mani ruvide di calli appoggiate sul ventre e la testa reclinata di lato. Avrei voluto averlo per me tutto il giorno almeno una volta, a Natale. Avrei voluto giocare insieme a lui con la bambolina nuova che sbucava dalla scatola di fiammiferi, mentre mamma mi sorrideva affaccendata tra un piatto sporco e uno appena lavato, tra uno strillo a mio fratello e una carezza consolatrice alla sorellina in lacrime.

Anche anni dopo, guardando dal mio monolocale le luci che dipingevano la città notturna, ripensavo con rimpianto a quei momenti che non mi ero mai potuta godere. Ripensavo a papà, che mi aveva lasciata quando ero ancora troppo giovane per capire, per accettare. Era mancato senza potermi concedere nemmeno un Natale intero. C’erano momenti in cui avrei voluto strappar via la data del 25 dicembre dal calendario e urlare tutta la mia rabbia. Compativo quella me stessa bambina che avrebbe tanto voluto un cagnolino a Natale, ma non l’aveva mai potuto avere, perché non si riusciva a mantenerlo, perché non c’era tempo per badare a un animale, perché perché… Nella mia vita i perché sono stati tanti, quasi quante sono state le rinunce.
Quel giorno di due anni fa mi alzai dal letto con un groppo in gola. La data del 25 dicembre era segnata sul display del mio cellulare, spietata. Mi vestii in fretta e scesi per raggiungere mia madre, che come tutti gli anni ci aspettava a casa sua per il tradizionale pranzo. I miei fratelli e mia sorella sarebbero venuti con le loro famiglie, io sarei stata sola anche quell’anno. Anche se avessi avuto un compagno avrei accuratamente evitato di portarlo al pranzo di Natale della mia famiglia. “Solo quando deciderò di sposarmi” mi dicevo ridendo, conscia del fatto che alla mia età non ci credesse ormai più nessuno. Il mio trentasettesimo compleanno era passato da un mese e ancora non avevo incontrato il principe azzurro. Avevo perso troppo tempo dietro a storie sbagliate. Mi sedetti nell’automobile gelata e sospirai. Almeno quell’anno non aveva nevicato. Affrontare mezza Torino pattinando sulla neve sarebbe stato troppo.
Girai la chiave, ma un lamento improvviso mi bloccò. Spensi subito il motore, e per un attimo rimasi interdetta, senza capire cosa stesse accadendo, i sensi tesi a cercare di cogliere di nuovo quel rumore. Quando già stavo per convincermi di essermelo immaginata, lo sentii ancora. Scesi di botto dall’auto e andai verso il cofano. Non c’erano dubbi: veniva proprio da lì dentro. Era un pianto, quasi un vagito. Richiamando alla memoria le ormai remote nozioni imparate a scuola guida, riuscii faticosamente ad aprire il cofano. E fu in quel momento che lo vidi. Miagolava con la forza della disperazione, piccolo e tremante, il corpicino bianco ridotto a un mucchietto di ossa, gli occhi azzurri che mi guardavano supplichevoli. Non riuscii a reagire subito, ma appena si mosse un pochino, mi sbloccai all’improvviso: mi terrorizzava l’idea che scappasse e si buttasse sulla strada trafficata.
Lo presi in mano, cercando di usare tutta la delicatezza di cui ero capace. In realtà, non avendo mai avuto cuccioli, non sapevo neppure bene come si dovesse afferrare un gattino. Aprii la zip del giubbotto e lo infilai dentro con cautela, temendo che potesse fuggire. Le sue unghiette affondarono nel mio maglione e mi sfiorarono la pelle, facendomi il solletico. Tornai in macchina e guardai il suo musetto grazioso, un  po’ rosa sul mento. Il gattino rimase incerto per un attimo, fissandomi coi grandi occhi tondi, sempre saldamente ancorato al mio maglione. Poi si mise a fare debolmente le fusa. Mi sentii strana. Una sensazione indefinibile m’invase, non riuscivo a capire se fossi felice o preoccupata. Gli allungai una timida carezza sulla testolina e intanto recuperai il cellulare dalla borsa. La ricerca su Google mi mostrò subito la clinica veterinaria più vicina. Digitai il numero, pregando che qualcuno fosse disponibile anche a Natale. Consideravano le emergenze animali alla stregua di quelle umane? Non ne avevo la minima idea. Quattro-cinque interminabili squilli. Poi il suono di una voce maschile che mi chiedeva di che cosa avessi bisogno. Deglutii. «Ho trovato un gattino nel motore della mia macchina. Volevo controllare che foste aperti. Posso portarvelo?». L’uomo all’altro capo del filo assunse un tono preoccupato: «Che aspetta? Lo porti subito. Aveva acceso il motore?».
«Sì» risposi debolmente.
«Allora non c’è un minuto da perdere. Si sbrighi per favore!»
Il modo autoritario del veterinario non mi piacque. Pensai che mi avesse trattata come una povera stupida. Ma in quel momento non avevo nessuna alternativa, e avevo anche ben altro per la testa. Se al micetto fosse successo qualcosa mentre era con me non me lo sarei mai perdonato.

La clinica era una piccola costruzione azzurra, nascosta in mezzo a due grandi palazzi. Fortuna volle che trovassi parcheggio proprio davanti. Mi precipitai dentro senza aspettare che la porta a vetri si aprisse completamente. Bussai e attesi con il cuore in tumulto. Il piccolo aveva smesso di fare le fusa, ma continuava a stare appeso al mio maglione, caparbio. Mi trovai di fronte un uomo. Capii subito che era la stessa persona che mi aveva risposto al telefono. Poteva avere 35 anni, non era molto alto, il viso si perdeva nella massa di riccioli scuri e un po’ disordinati, ma i suoi bellissimi occhi azzurri non riuscivano a nascondersi neppure dietro agli occhiali. Annaspai. Me l’ero immaginato diverso. Un lampo d’imbarazzo sul suo viso mi fece supporre che anche lui avesse pensato la stessa cosa. Ma durò un istante. Subito mi disse, con durezza: «E il gatto?».
Imbronciata, aprii il giubbotto e gli mostrai il micio, che tremava visibilmente. Lui mi guardò con un’espressione indecifrabile. «E un trasportino? Non ce l’aveva?».
A quel punto esplosi. «Senta, io non so nemmeno cosa sia un trasportino. In tutta la mia vita non sono mai, e dico mai, stata così vicina a un animale, di conseguenza la pregherei di farmi sapere se vuol vedere cos’ha questo gatto. Altrimenti, senza perdere altro tempo, vado a cercare un’altra clinica».
Il suo volto si fece cupo. Senza rispondere, mi tolse il micino dalle mani, prendendolo per la collottola con sorprendente delicatezza. Aveva mani grandi e un po’ tozze. Lo seguii in corridoio, e poi in una piccola stanza adiacente. Lui mise il micio sul lettino e iniziò una visita meticolosa. Rimasi in un angolo, tesa, mentre guardavo il modo in cui lo toccava. Il piccolo tremava incontrollabilmente. Dopo qualche minuto il veterinario si voltò verso di me. La sua espressione sembrava ora meno ostile, la luce nei suoi occhi meno penetrante. Abbozzò perfino un mezzo sorriso, mentre mi diceva: «Nulla di grave per fortuna, ha solo una piccola bruciatura. Avevo paura che la situazione fosse peggiore».
Sussultai e mi precipitai al suo fianco. «Si è bruciato?» chiesi con una voce stridula che io stessa stentai a riconoscere. Lui assunse un tono rassicurante: «Sì, ma solo un pochino. Qui. Vede?». E m’indicò un punto sopra la coscia posteriore dove una piaghetta faceva capolino sotto il pelo fitto. «I gatti s’infilano spesso nei cofani per cercare calore, ma i motori delle auto possono provocare anche ustioni gravissime. Lui è stato fortunato. Il problema maggiore adesso è un altro: è debole, disidratato, e ha preso molto freddo. In ogni caso non vedo nessun pericolo. Lo terrò in osservazione una notte, poi potrà portarlo via».
Lo fissai, impiegando qualche minuto per mettere a fuoco. «Via…» ripetei poi come una sciocca. A questo in effetti non avevo pensato: una volta dimesso, dove avrei portato il piccolo? Le mani mi caddero lungo i fianchi per lo sconforto. Lui parve capire il mio dilemma. «Se non può tenerlo, un’altra soluzione si trova».
Sbattei le palpebre, in quel momento non ero in grado di pensare. Fissai il mucchietto di pelo che aveva ripreso a miagolare debolmente. Poi guardai le mani del veterinario che applicavano una pomata sulla ferita. «Lo tenga fermo un attimo» mi disse ancora, «Gli faccio un prelievo del sangue, così vediamo se è immune da tutte le malattie infettive. Sa, i gatti possono prenderne parecchie. Questo signorino avrà al massimo due mesi, ma non posso escludere che la madre gli abbia trasmesso qualcosa con il latte. Quando si parla di randagi, tutto è possibile».
Annuii. Mi sentivo tremendamente stupida. Non potevo decidere ora, ma sapevo che l’ipotesi di tenerlo era quasi esclusa a priori. Ero sola, con uno stipendio da grafica che ancora doveva farsi la sua clientela, dopo il grande salto del mettersi in proprio. Dovevo lavorare come una pazza e a fine mese racimolavo appena il necessario per dar da mangiare a me stessa. Il gattino si lamentò debolmente quando l’ago gli bucò la vena. Per poco non me lo lasciai sfuggire. Avevo troppa paura di fargli male. No, decisamente non ero in grado di occuparmene. Non avrei saputo neppure da che parte iniziare. Sicuramente un micetto così bello sarebbe stato meglio con qualcun altro, qualcuno che sapesse qualcosa di gatti. Appena il veterinario mi disse che potevo lasciarlo, il mio cellulare si mise a suonare. La voce di mia mamma era alterata.
«No, mamma, non preoccuparti, non è successo niente, sono dal veterinario». Le spiegai brevemente quanto era accaduto e ascoltai le sue infinite lamentele. Dopo cinque minuti ero ormai seccata, per cui chiusi la telefonata con una frase sgarbata: «No, mamma, visto che si raffredda tutto, non c’è motivo che mi aspettiate. Pranzate pure. Io magari verrò stasera a cena. Sono dall’altra parte della città e preferisco tornare a casa e mangiare qualcosa lì. Non voglio rovinarvi la festa». Sospirai. Con la coda dell’occhio notai che il veterinario mi stava osservando senza farsi troppo notare. Il mio pranzo natalizio era ormai saltato.
Mi voltai con decisione. «Allora, mi dica quanto le devo e a che ora posso tornare domani». Lui parve preso alla sprovvista. Rimase qualche istante in silenzio, poi appoggiò delicatamente il gattino in un trasportino, gli mise davanti una ciotola d’acqua e una di croccantini, e si lavò le mani. «Il micio è un trovatello, domani faremo il conto delle spese vive. Per il servizio non chiedo nulla». Mi guardò dritto negli occhi. Io alzai un sopracciglio con aria interrogativa. Lui sorrise, stavolta con maggiore dolcezza e, dovetti ammetterlo, non senza fascino. «Visto che i suoi piani per il pranzo di Natale sono appena saltati, che ne dice di farmi compagnia? Ho preparato un po’ di cose ieri, dato che era il mio giorno di riposo, ma mangiarle da solo mi metterebbe tristezza, oltre a farmi ingrassare di dieci chili». Nel parlare aveva iniziato a togliere dal frigorifero delle scatole in plastica, di quelle che si usano per gli alimenti. «Se accetta» proseguì in tono forzatamente disinvolto, «potremmo accomodarci nel mio studio. Temo di non avere di meglio da offrirle».
Lo guardai sorpresa, poi risi. Non so cosa fu a spingermi ad accettare quell’inatteso e insolito invito. Forse avrei dovuto ammettere a me stessa che quel tipo scorbutico, dopotutto, mi piaceva. Prima di lasciare la stanza, mi voltai preoccupata verso il gattino. Lui prese risolutamente in mano il trasportino e annuì guardandomi. «Lo portiamo di là. Dopo pranzo gli darò dell’antibiotico. Meglio fare almeno un ciclo per sicurezza». E fu così che mi ritrovai a passare il Natale mangiando su una scrivania, mentre osservavo un piccolo essere bianco e rosa che divorava croccantini dietro alle sbarre della sua mini-prigione. Dopo circa mezz’ora passammo al tu. La conversazione fu piacevole, senza imbarazzanti silenzi, e priva di domande forzate. Scoprii che il mio veterinario si chiamava Fabrizio e lui scoprì che io ero Rachele. Ci raccontammo l’un l’altra poco alla volta, senza fretta. Gli svariati piatti che aveva preparato erano tutti sorprendentemente buoni. Ridacchiai pensando che avevamo davvero poco in comune. Io ero un’esperta nello scongelare pietanze già pronte. E, nonostante queste nostre mancate somiglianze, ogni volta che nel passarci un piatto le nostri mani si sfioravano, sentivo un brivido. Il pranzo si protrasse fino alle tre del pomeriggio, poi fumammo insieme una sigaretta, brutto vizio che condividevamo. Chiacchierammo ancora un po’, ma alla fine, anche se con dispiacere, dovetti alzarmi per andar via. Mia madre non avrebbe perdonato una mia mancata comparsa anche per la cena. Allungai una grattatina al micio infilando un dito tra le sbarre. Lui mi rispose con un ron-ron rassicurante. Sorrisi e strinsi la mano a Fabrizio. «Cosa farai con lui?» mi chiese. Scossi il capo.
«Ci penserò. Non ho ancora deciso nulla. Sarebbe molto difficile per me tenerlo».
«Se vuoi posso occuparmene io. Può restare qui finché non troviamo una famiglia. Certo, rimarrebbe nel trasportino, ma è sempre meglio che per strada.»
«Domani ti darò una risposta».
Per non ripensarci balzai fuori dalla porta a vetri, poi alzai la mano e gli gridai: «Ciao, trattami bene Pallino!» E corsi alla macchina. A cena fui intrattabile, la notte non dormii, il giorno seguente alle otto ero già davanti all’ambulatorio. Fabrizio mi sorrise quando mi vide, andò nell’altra stanza e tornò con un trasportino azzurro. «Ho deciso…» iniziai con voce flebile.
Lui rise. «Lo so. Pallino è in splendida forma. Puoi portartelo a casa. Ah, il trasportino è mio, quindi dovrai lasciarmi il numero di telefono perché dovrò venire a riprenderlo».

 E dopo due anni sono ancora qua, Pallino e Fabrizio. Li ho trovati in una mattina di Natale come un dono inatteso. E altri Natali che verranno ci vedranno insieme, per recuperare tutti i miei Natali perduti.

Pubblicato su Confidenze 52/2014

 

Foto: Istock

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