Storia vera di Guido G. raccolta da Daniela Granieri
Ho parcheggiato la macchina all’ombra dell’unico albero della strada. La conosco bene questa strada. È uno dei posti nostri. O meglio era. Una delle scenografie abituali in cui abbiamo spesso recitato insieme la nostra voglia di vivere. O di sopravvivere. Insieme. Insieme, come non è più.
Sono sempre arrivato qualche minuto prima per prendere quell’unico posto all’ombra, in genere lo facevo per non far soffrire il caldo al mio Pastore Tedesco sempre acciambellato a dormicchiare rannicchiato contro il portellone della macchina. Ma oggi lui non c’è ed è solo l’abitudine a guidare la mia manovra.
L’abitudine, proprio lei. Quella strana forza che ti fa fare le cose senza saperne bene il perché. E che uccide la tua attenzione e il tuo senso del giusto un pezzetto alla volta. Delicatamente, inesorabilmente. Avvolgendoti in una strana nebbia soffice. Al cui repentino occasionale diradarsi ci si ritrova in posti e situazioni che ti lasciano perplesso a pensare: so dove sono, ma non come ci sono arrivato.
Non ti vedo da qualche mese. Ieri sera quando ho telefonato per sentire come stavi avevo già deciso di chiederti se ti andava di pranzare insieme. Ma quando mi sono trovato a doverlo dire non ero più così sicuro. Mi sentivo emozionato. E un po’ mi vergognavo. Sepolta da tempo l’abitudine anche le cose abituali tornano a essere come nuove. In un modo strano quasi quanto la vita. Almeno la mia.
Mentre ero lungo la strada che mi portava qui tutto era familiare ma diverso, come se il paesaggio fosse scolorito. Tante volte son stato felice di percorrere questa strada. La strada che portava a te. Oggi più che altro ero preoccupato. Ma anche curioso di conoscermi meglio. Di leggermi dentro senza saper prima cosa ci avrei trovato scritto. Di scoprire che emozione fosse quella che mi legava lo stomaco sempre più a ogni chilometro percorso. Ma ora sei qui e mi vieni incontro. Scopro di essere contento di vederti e anche un po’ imbarazzato. Hai una maglia verde che non conosco. Il verde è un colore che non ti ha mai convinto, una volta forse non l’avresti indossato. Soprattutto non con lo smalto blu sulle unghie dei piedi, che, mi sembra strano, non si abbina con quello trasparente che hai sulle dita delle mani. Non è da te, o non è da quella te che conoscevo, non abbinare tono su tono. Ma forse hai davvero ragione tu quando dici che siamo sempre noi stessi, ma che scopriamo un noi stesso diverso di tanto in tanto.
Sono davvero un uomo strano a notare questi particolari insignificanti. Ma d’altronde io sono anche quello che quando scoprì che ti chiamavi Anna riuscì a dire che era un palindromo, mentre avrei voluto, dovuto dire centinaia di altre cose. Banalità magari, come banale poteva sembrava, a un osservatore poco attento, il nostro primo incontro. Una giornata calda, una sofferenza per me che il caldo l’ho sempre detestato. Una spiaggia fin troppo affollata per i miei gusti, tanto che mi sto chiedendo da un’ora che cosa sto facendo qui oltre a cercare di catturare tutta l’ombra che mi può offrire un gazebo improvvisato e condiviso con quattro amici più amanti dell’abbronzatura di me. Ma quando alzo lo sguardo dal libro che sto leggendo capisco, non chiedermi come, che il motivo per il quale sono qui a grondare di sudore, sei tu. Che non esistevi se non da qualche parte dentro di me. Stai discutendo con un pareo colorato che non ne vuole sapere di coprire due gambe lunghissime e abbronzate, forse perché stai anche parlando al telefono e tentando di mangiare un gelato. C’è un che di elegante nel tuo incedere, e anche di buffo. Passo dopo passo sei sempre più vicina al nostro gazebo, e chissà perché, il caso sceglie di fare scivolare il telefono dalle tue mani e il pareo dalle tue gambe a pochi metri da me. Sbuffi, ridi da sola, ti dai dell’imbranata e ti scusi per l’invasione di campo. Cinque paia di occhi ti stanno fissando con ammirazione, credo tu ci sia abituata e che ti dia anche un po’ fastidio, mentre io mi alzo di scatto e mi avventuro sotto il sole per raccogliere e porgerti il cellulare caduto. È solo un attimo e le nostre dita si sfiorano. È come essere colpiti da una scossa elettrica, per me.
Ringrazi, e nel farlo togli un attimo solo gli occhiali da sole che nascondono due occhi di un azzurro mare che bucano. L’anima. «Grazie, sono proprio una frana!». E nel dirlo ridi, di una risata argentina e sincera. Mi chiedo se questo splendore che ho di fronte abbia un nome, e tra un “non c’è di che” e “vuoi bere una coca con noi”, scopro che ti chiami Anna. E che la mia sciocca battuta ti ha colpito più di tante altre frasi fatte e certo più appropriate. Ti strappo un altro sorriso e tu, in quel preciso istante , prendi possesso del mio cuore. Della mia anima.
L’ho saputo subito. Ho capito immediatamente che avresti sconvolto la mia vita. Che avrei sconvolto la tua, Che le anime simili si riconosco all’istante e non riescono più a fare a meno l’una dell’altra. A farsi male. A farsi bene. Di simile a quel giorno lontano, oggi c’è soltanto il sole e il caldo. Il resto è tutto diverso. Qui non ci sono spiagge ma verdi colline, niente chiosco sulla spiaggia, niente bibite fresche. Niente di quello eravamo. Mentre ti avvicini piano cerco di concentrarmi sul tuo viso. Ma i tuoi occhi di ghiaccio, che mi hanno sempre bucato l’anima posso solo immaginarli, nascosti dietro i tuoi immancabili occhiali da sole. Devo distogliere lo sguardo e respirare più profondamente per evitare che il nodo allo stomaco diventi scorsoio e finisca con il soffocarmi. Ora mi sorridi e io non riesco a fornire risposta più convincente di una linguaccia. Bastasse fingersi scemi per esserlo davvero, forse sarei più sereno. O più inconsapevole. Ora siamo abbracciati. Sono contento che sei qui. E di esserci anch’io. Sei contenta anche tu. Lo so, lo sento. La tua pelle ha sempre un buon odore e il tuo calore mi dà un po’ di vertigini. Come una piccola scossa mi attraversa, non è attrazione sessuale ma qualcosa di più complesso. Una qualche specie di strana magia. Qualcosa di grande comunque. Di profondo. Una strana forma d’amore, come ci siamo detti per una vita. Come l’abbiamo vissuta per una vita.
Il bar è più piccolo e più squallido di come lo ricordavo. A dispetto dell’apparenza ci si mangia abbastanza bene. Come se adesso m’importasse qualcosa di mangiare, tutto preso come sono a dare un nome alle emozioni che mi percuotono, mi assalgono. Ricordi di decine di pranzi, di cene, di passeggiate nei prati, di ore in auto. Di pomeriggi rubati nascosti in una camera da letto a ridere fino allo sfinimento. A piangere fino allo sfinimento. Di stazioni, di treni persi. E non solo materialmente. Chissà quando abbiamo perso il nostro. Ma non serve più a niente saperlo. Mi sforzo di rilassarmi e di vivere questo momento, così come mi viene, che avrò tempo dopo per le analisi e le domande. Così, tra un menu del giorno e una panzanella ci ritroviamo a parlare come vecchi amici. Quelli che siamo sempre stati o non siamo stati mai. Ti vedo ridere alle mie battute, ed era una vita che non succedeva. Era dai tempi del tuo trasloco improvvisato, ricordi? Certo che ricordi, anche se si tratta di un’era geologica fa, praticamente in un’altra vita. Ma certe cose non si dimenticano mai. Ti rimangono attaccate dentro così vive e vivide da cancellare il tempo e tuffarsi nei ricordi. Ricordi Anna quelle notti passate su Skype? A parlare, parlare, e conoscerci. Perché conoscerci non ci bastava mai. E le occhiaie il mattino dopo? Le giornate erano sempre troppe lunghe quando eravamo lontani, scandite dagli orari delle interminabili telefonate, dei messaggi in chat, del bisogno spasmodico di condividere ogni attimo, ogni pensiero, ogni respiro. Ogni sogno. Il sogno. Che ci fosse un domani per noi. Lo so che ricordi, e anche se adesso sembra tutto bello, tutto normale, in questo momento ci sta passando nella testa il film di quasi dieci anni di vita. I desideri condivisi anche senza bisogno di parlare. La perfezione delle intenzioni, il disastro dei fatti. Le parole dette e quelle taciute. Le promesse tradite, nostro malgrado. Sento fondersi insieme piacere e dolore, speranze e delusioni, successi e tragedie, amore e odio. E li vedo dipingere l’incredibile, assurda, assoluta, bellissima, devastante storia gialla di limone su fondo blu notte che siamo stati noi. Mentre diligentemente togli ogni traccia di cipolla dalla tua panzanella prima di mangiarla, fingendo spudoratamente di avere un gran fame (proprio tu che sembravi campare d’aria e cioccolata) cerchi di capire se davvero sono convinto della mia scelta, anche se sai perfettamente che è l’unica possibile. Che Marta è la mia ancora di salvezza e che posso ringraziare il cielo ogni giorno per averla incontrata. Sapevo che l’avresti nominata. Lo sapevo prima ancora di vederti. Sapevo che avresti ribadito che è un po’ merito tuo (o colpa?) e che sei felice se io sono felice (mi mancherai, ti mancherò). È che alcune strane magie continuano a funzionare sempre e per sempre, anche quando tutto il resto è ormai materia per i libri di storia. Quella storia banale degli uomini che non si insegna a scuola e che ci ostiniamo a chiamare vita.
Sì, ti dico credendoci a metà. Sono felice di andare via da qui, da te (vorrei non lasciarti mai), una nuova città, una nuova vita (mi accontenterei fosse solo normale), nuove incognite da affrontare quelle che un tempo mi divertivano ma che oggi non mi interessano più. Cerca di vivere sereno, te ne prego. Cerca di vivere senza di me, senza noi. Questi noi che sono riusciti a farsi del male a vicenda, perché l’amore a volte non basta. Non è bastato. Ci proverò. Ci riuscirai. E stai mentendo un po’. Mi dimenticherai. E sto mentendo un po’.
Si è fatto il momento di andare via, le pause pranzo sono sempre troppo corte per riempirle con troppa vita. Un altro abbraccio, per imprimersi indelebile nella memoria il tuo odore (lo porterò sempre dentro di me) e poi un bacio, leggero e timido sulle labbra che si sono incontrate centinaia di volte (sai di dolore e di lacrime) ma profondamente diverso. Ha il sapore dell’ultimo. Dei rimpianti senza fine. Dei ma e dei se. Che cosa abbiamo sbagliato? Il tempo, il modo. Siamo sbagliati noi quando stiamo insieme. Lo sappiamo bene, ma non per questo fa meno male.
Quel nodo allo stomaco è diventato scorsoio e ci aggroviglia nell’ultimo abbraccio, nell’ultimo saluto. Neanche fosse oggi che ci stessimo dicendo addio. O come hai sempre detto tu forse anche solo un ciao. Certo che ci rivediamo. Almeno lo spero. Sai bene quando la mia vita sia diventata fragile. Di quanto io sia diventato fragile. Ci incontreremo solo nei nostri ricordi…
Sì lo so, devi andare al lavoro. È una vita che devi andare da qualche parte, anche quando non vorresti, o non dovresti. Ci prendiamo le mani e le stringiamo forte, scendi dall’auto e mi butti le braccia al collo e non riesci a trattenere le lacrime. Non farlo Anna. È già tutto troppo difficile. Così finisce che piango anch’io. Per tutto quello che è stato e quello che non è stato. Per quello che abbiamo perso, per quello che non potremo avere più.
«Ti voglio bene». Io invece ti amo. E non posso smettere, non oggi, non ora. Non posso smettere nemmeno se Marta mi aspetta, se la vita mi aspetta. È così.
E nonostante tutto e anche se non dovesse servire a niente so bene che sarà sempre così. Forse è davvero l’affetto il sentimento eterno, quello che si dovrebbe promettere, finché vita non vi separi. Credo che ripenserai a una cosa che ti ho detto spesso, forse immaginando quale sarebbe stato l’epilogo di questa storia. «I grandi sentimenti, lasciano dei grandi vuoti». Spero che riusciremo entrambi a colmarli con qualche altra forma di amore, magari meno complicata e meno dolorosa. Un amore che si lasci vivere.
Sono quasi le tre del pomeriggio. La tua ora di permesso extra per l’ultimo pranzo insieme è davvero scaduta. «Vai» ti dico, «sennò ti fanno il cicchetto quando rientri». Annuisci. Risali in macchina, chiudi lo sportello ma abbassi il finestrino e non riesci a trattenerti: «Mi raccomando, fai il bravo ». Poi abbassi lo specchietto, togli in qualche modo il mascara nero colato giù per le guance, inforchi gli occhiali da sole che ti nascondono al mondo, ingrani la prima e te ne vai. Davvero.
Rimango in mezzo al piazzale a guardare la macchina blu che si allontana rabbiosa. Posso piangere liberamente senza paura di sporcarmi, dato che io non ho il mascara. La gente intorno a me entra ed esce dal piccolo bar ristorante.Mi arrivano frasi smozzicate da chi parla di lavoro, di ferie, o di figli. È tutto lontano, come se una nebbia improvvisa e inopportuna avesse avvolto solo me. Mi riscuoto. È ora di andare sul serio. E mentre guido l’asfalto è come scomparso e al suo posto ci sono solo pensieri, emozioni e lacrime. Che scorrono. Inesorabili. Sono contento di averti vista. E anche se adesso quel nodo nello stomaco è diventato una montagna di solitudine che ha preso residenza nella mia anima sgomitando un bel po’, un pezzetto di me continua a sorridere. Ed è un sorriso tenero che vale le lacrime che costa. Quella di oggi forse è stata solo un’altra puntata del nostro lungo addio, che per certi versi finirà solo quando finiremo di esistere noi. Certe magie riescono a sopravvivere anche sulle macerie di una separazione. E quando smetterà del tutto di essere doloroso forse sarà anche piacevole saperlo. E forse anche viverlo meglio, se ne avremo voglia e opportunità. Ora vado deciso verso l’ignoto e non posso non pensare che non potrò mai amare un’altra come e quanto ho amato te, ma merito un’altra possibilità, quella che mi ha offerto Marta regalandomi, senza chiedere niente, tutta se stessa. Voglio che non si penta mai di avermi scelto, e voglio vivere con lei e per lei una vita capace di dare un senso compiuto al mio tempo. Sorrido fra e me e me, e rispondo alla tua domanda. Farò il bravo. Promesso
Testo pubblicato su Confidenze n. 23/2017
Foto:
Ultimi commenti