Vi riproponiamo sul blog la storia vera più apprezzata della settimana: Un nome e un cognome, di Roberto Molinterni, pubblicata sul n. 6 di Confidenze
Quando mia nipote mi presentò il suo ragazzo, vidi subito qualcosa di familiare in lui. E poi capii: Antonio era il nipote del “mio” Antonio. Mi bastò quell’intuizione per iniziare a tremare. Che effetto mi avrebbe fatto rivederlo? Temevo di non reggere l’emozione
STORIA VERA DI LUISA R. RACCOLTA DA ROBERTO MOLITERNI
Aveva appena cominciato a nevicare e io avevo appena ricevuto la notizia: mia nipote Angelica si sposava. Era la prima volta che ci presentava ufficialmente il suo ragazzo e ce lo portava a casa. Sapevamo già di lui: avevano fatto delle vacanze insieme. Gina, la madre di Angelica, ne parlava benissimo. Certe volte sembrava lei quella innamorata. E lo capivo, perché, adesso che lo vedevo, Antonio era proprio un bel ragazzo: alto, ben piantato, con una barba perfettamente curata. Per tutto il tempo che erano stati nel nostro soggiorno lo avevo fissato: c’era qualcosa di familiare in lui che affiorava sotto il vestito di gentilezza e buone maniere che indossava per farci un’impressione favorevole. Poi, quando disse il suo cognome (per ragioni di privacy ne riporto solo l’iniziale, M.), ebbi un mancamento. A distanza di anni, quel suono era ancora in grado di farmi tremare. Sentii l’intestino stretto come da un pugno. Antonio M. era stata la mia croce e la mia delizia.
«Ma hai preso anche il nome da tuo nonno?» chiesi, fingendo la massima indifferenza. Non volevo che mio marito, che non sapeva nulla di questa parte del mio passato, si accorgesse di qualcosa.
«Sì» rispose Antonio. «Mio nonno faceva il meccanico a Bucaletto (un quartiere di Potenza, ndr). Lo conosce?».
«No, no, cioè non lo so» risposi balbettando. «Una volta conobbi un tale che si chiamava così, ma è passato tanto tempo. Non so che lavoro facesse…».
Non era vero. Conoscevo ogni angolo di quella officina. Tante volte, da ragazzi, avevamo abbassato la saracinesca e ci eravamo amati là dentro, sui carrelli pieni di chiavi inglesi, sui cofani o sui sedili delle macchine in riparazione. Ogni volta tornavo a casa sporca di grasso e dovevo andare di nascosto in bagno a pulirmi, perché mia madre o mio padre non mi vedessero.
«E quindi vi sposate?» dissi ritornando da quei ricordi lontanissimi.
«Sì, a maggio, nonna» rispose Angelica. «Volevamo che foste i primi a saperlo, dopo i nostri genitori».
«Sono felicissima» dissi. «Tu sei parte di me».
«E brava la nipotina mia» commentò a sua volta mio marito. Stava iniziando a commuoversi, avvicinò Angelica a sé per darle un bacio. Ultimamente si commuoveva per tutto, anche se al telegiornale raccontavano di un gattino salvato da un albero.
Approfittai di quel momento di confusione per avvicinarmi ad Antonio:
«Tuo nonno verrà?» gli chiesi a bassa voce, con un’urgenza che doveva tradire tutti i sentimenti contrastanti che stavo vivendo.
Antonio se ne accorse ed esitò a rispondermi: si chiedeva il perché di quella domanda. Ciò che volevo sapere era se suo nonno fosse ancora vivo. Alla fine rispose: «Sì, certo, ovvio». Dopo anni l’avrei incontrato di nuovo.
La neve scendeva e il suo silenzio felpato sembrava un carillon perfetto per accompagnare i miei sentimenti. Angelica e Antonio erano andati via da poco. Luigi non si accorse di me e della mia malinconia, continuava a girare per casa scuotendo la testa commosso, ripetendosi:
«Ma vedi tu: Angelica si sposa…».
Credo che in quel momento stesse rimpiangendo che la sua prima moglie non avrebbe assistito a quel matrimonio.
Dopo qualche settimana Antonio e Angelica ci telefonarono: volevano organizzare una serata per far incontrare le due famiglie prima del matrimonio; cena in una storica pizzeria del centro. Quella pizzeria. Mi venne immediatamente l’ansia e non mi abbandonò fino al sabato dell’incontro. Due ore prima iniziai a dire a Luigi che avevo fortissimi giramenti di testa, «sarà sicuramente la pressione» gli dicevo, del resto era plausibile: prendevo da dieci anni la pillola per regolarizzarla!
«Mannaggia, e come dobbiamo fare?» si domandava Luigi, preoccupatissimo. «Proprio stasera. È una cena così importante! Ci stanno i parenti di Antonio».
«Luì, non mi fido. Toccami il polso, toccami. Senti come sta il battito».
Luigi, che era ancora più confuso di me, mi toccò un attimo il polso. Avevo un battito perfetto, ma lui si spaventò tantissimo:
«Luisa, quanto sta forte. Chiamo il dottore».
«No, il dottore no. Mi stendo un attimo. Se non mi riprendo ci vai solo tu».
«Ma senza di te?».
Non dissi più nulla e mi stesi sul letto, fingendo di dormire. Luigi continuò a prepararsi, si stava stringendo il nodo della cravatta. Di solito lo facevo io. Ogni tanto riaprivo gli occhi e lo controllavo: camminava avanti e indietro, con le mani dietro la schiena, o si sedeva sullo sgabello e si teneva la testa fra le mani, in attesa che io mi decidessi. Dopo un po’ si alzò e andò a guardare il ritratto della sua prima moglie che tenevamo in soggiorno. Ogni tanto gli mancava, era sempre stato così, ma io l’avevo accettato: era difficile succedere a una moglie che non c’è più. In quel momento mi sentii ancora più inadeguata del solito.
Mi sollevai dal letto e gli dissi: «Andiamo, sto meglio».
La pizzeria era rimasta uguale. In tutti quegli anni non l’avevano rimodernata nemmeno un po’. Erano cambiati solo i televisori alle pareti, adesso erano a schermo piatto. Il nostro tavolino, quello dove io e Antonio sedevamo prima che mi portasse nell’officina a fare l’amore, era sempre lì, nell’angolo sotto il bancone del pizzaiolo, che era un amico di Antonio. Sceglievamo quel tavolino perché si stava più caldi e ci piaceva guardare il pizzaiolo mentre lavorava: con quanta maestria faceva volteggiare l’impasto nell’aria! Il pizzaiolo però, in quegli anni, era cambiato: adesso al forno c’era un egiziano.
Angelica ci venne incontro per darci il benvenuto e accompagnarci nella sala che avevano riservato. Le chiesi subito: «Ma perché proprio questa pizzeria?».
Angelica abbassò lo sguardo, imbarazzata.
«È qui che mi ha portato Antonio la prima volta, ed è qui che mi ha chiesto di sposarlo. La sua famiglia ci veniva sempre».
Lo sapevo bene, eccome se lo sapevo. Poi Angelica ci accompagnò nella sala. Per arrivarci c’era da attraversare un corridoio lungo, stretto e tortuoso che assomigliava al labirinto che bisognava percorrere per raggiungere il posto nel cuore in cui avevo nascosto Antonio per tutti quegli anni. Adesso lo stavo ripercorrendo tutto e alla fine, in fondo a quel corridoio, trovai lui. Se ne stava con il pugno appoggiato sul tavolo, come se non fosse in grado di reggersi da solo, in un completo scuro e stretto. Il corpo gli si era gonfiato, di un gonfiore innaturale, conseguenza forse di un eccesso di medicinali. Però i baffi, sottili, appartenenti a un’altra epoca, e lo sguardo, erano rimasti gli stessi. Uno sguardo, vispo, furbo, da cattivo ragazzo che, quand’ero giovane, era stato l’origine di molti e profondi turbamenti. Con quegli occhi piccoli e stretti mi guardò, dopo anni, e non mi riconobbe. Quando finalmente capì, gli prese un colpo. Angelica ci portò proprio da lui e da sua moglie, che gli sedeva accanto. Alla fine aveva sposato lei.
«Questi sono i nonni di Antonio» disse Angelica. «Giuseppina e Antonio».
Giuseppina mi offrì la mano, non la guardai nemmeno negli occhi. Chissà se lei sapeva di me. Poi fu il turno di Antonio.
Fingemmo di non conoscerci. Allungò la mano e me la strinse. Era ruvida, grinzosa, ma era la sua. Avrei potuto riconoscere fra mille mani quell’equilibrio perfetto di peso, consistenza e calore che mi riportarono, in un istante e definitivamente, a tanti anni prima.
Io e Antonio ci eravamo conosciuti nel 1968. Frequentavamo entrambi l’Azione Cattolica. Lui era di tre anni più piccolo di me, per questo era arrivato dopo. Nonostante fosse più giovane, si dimostrò da subito audace. Durante le prove del coro non faceva che fissarmi, senza alcun pudore. Dopo una settimana mi chiese di uscire con lui, io gli risi in faccia: «Sei troppo piccolo» risposi.
«Le cose che si vedono hanno un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne. Dalle Lettere ai Corinzi».
Quelle parole, così precise e pungenti, mi fulminarono.
Ci pensai per giorni e, alla fine, mi lasciai convincere. Mi portò in quella pizzeria. Non faceva onore alla mia formazione cattolica, ma mentirei se dicessi che ho resistito a lungo al suo fascino. Dopo un mese ero io stessa che, tutte le volte che si poteva, gli chiedevo di andare nell’officina. Restavamo lì dalla chiusura fino alle 22, quando, come una principessa delle favole, dovevo rincasare. In quelle ore sperimentavamo la dolcezza e la passione, le prime sigarette che lui fumava subito dopo aver fatto l’amore con me. Del resto, nel Cantico dei Cantici, nemmeno la sposa, che era stata messa a guardia delle vigne dai fratelli sdegnati, era riuscita a resistere allo sposo: «La mia vigna, la mia, non l’ho custodita» ammetteva.
Ci vedemmo di nascosto per un paio di anni, quelli più felici e più vivi della mia vita. Poi iniziammo a pensare al matrimonio. Lui disse che ne avrebbe parlato a casa. E lì sorsero i primi problemi: sua madre, non appena seppe di me, si dimostrò contraria, sia perché ero più grande di lui, sia per le origini della mia famiglia: eravamo poveri. Antonio mi disse di pazientare, un po’ alla volta avrebbe convinto la madre. Ma più passava il tempo, più mi rendevo conto che lui era dipendente da quella donna: non avrebbe mai fatto niente che potesse farla soffrire. Era terrorizzato dal suo giudizio. E da quando sua madre aveva espresso la sua contrarietà, la nostra intimità era cambiata: Antonio era sempre preoccupato che qualcuno ci potesse vedere insieme. Avevamo anche smesso di andare alla pizzeria. Passò così un altro anno e alla fine io lo misi alle strette: «O mi presenti i tuoi», lo minacciai, «oppure ci lasciamo».
All’appuntamento successivo, quello in cui avrebbe dovuto comunicarmi l’esito dell’ultimo incontro con sua madre, non si presentò. Era una gelida giornata di febbraio e nevicava.
Lo aspettai per un’ora. Le mani, nonostante i guanti, mi diventarono viola. Quando tornai a casa, mi chiusi in camera e mi misi a piangere. La pelle era talmente screpolata che le lacrime mi tagliavano il viso. Non venne nemmeno più all’Azione Cattolica. Dopo un po’ lo vidi per il corso mano nella mano con quella Giuseppina. Poi non ne seppi più nulla, tranne che si era trasferito in Germania per lavoro. Io non mi innamorai di nessuno finché, a 55 anni, non entrò Luigi nella mia vita. Era vedovo e i figli, per farlo riprendere dallo shock, lo avevano costretto a iscriversi alla scuola di ballo che frequentavo anch’io. Era un uomo buono, gentile e timido, e mi fece diventare prima moglie, poi nonna, “prestandomi” i suoi nipoti, che mi adoravano, perché l’altra nonna, la prima moglie di Luigi, era scomparsa quando loro erano troppo piccoli per ricordarsene.
Dopo anni, adesso ero orgogliosa di essere seduta accanto a Luigi in una cena di una famiglia che altrimenti non avrei mai avuto e, senza di lui, non avrei mai vissuto l’emozione di vedere una nipote sposarsi. Tuttavia, durante quella serata, tutte le certezze che mi ero costurita, sembravano vacillare. Antonio era seduto di fronte a me. Fingevo di non guardarlo, come lui faceva con me. Ma ogni tanto lo sorprendevo a fissarmi, come se volesse capire chi ero diventata, se ero felice,se ero riuscita a essere felice anche senza di lui. Perché è quello che vogliamo sapere dalle persone con cui abbiamo avuto una relazione e che abbiamo perso, non importa se siamo stati lasciati o abbiamo lasciato: se sono riusciti a sopravvivere senza di noi.
Non riuscivo a reggere il suo sguardo, temevo che mi scoprisse ancora infelice per lui. E non volevo concedergli questa soddisfazione. Allora mi alzai, andai in bagno. Mi sciacquai la faccia, mi guardai allo specchio: mi veniva da piangere, ero distrutta. Sentii che qualcuno si stava avvicinando alla porta dell’antibagno. Mi infilai nel bagno delle donne, chiusi a chiave, abbassai il water e mi ci sedetti sopra, come una quindicenne che è scappata dalla pista da ballo di una festa perché il ragazzo che desidera non l’ha degnata di uno sguardo. La porta dell’antibagno si aprì sentii dei passi, poi la porta del bagno degli uomini chiudersi. Poi silenzio. Da quel silenzio, dopo poco, arrivò una voce roca e sofferta, consumata da troppe sigarette:
«Te la ricordi la volta che abbiamo fatto l’amore qui dentro?».
Fu come un dardo nello stomaco: in un attimo la tristezza e la gioia, che erano state fino a quel momento compresse nella pancia, si liberarono e scoppiai in un riso e pianto insieme.
«Sì, me lo ricordo» dissi, trattenendo il singhiozzo.
«Gennaro ci scoprì» continuò lui. «Ma chiuse la porta e se ne andò». Restò in silenzio. Poco dopo sentii lo scatto di un accendino. Si stava accendendo una sigaretta. Lo rimproverai:
«Non puoi fumare qui».
«Eh…» rispose lui, come se non gli importasse.
«Hai sempre fatto come ti pareva. Con le cose, con le persone, con me. Tranne con tua madre. Facevi tutto quello che ti diceva».
«Me ne sono accorto quando è morta».
«Ormai era tardi».
«Già».
«Sei stato felice?».
«Ho fatto quel che potevo. Una vita non dev’essere felice, dev’essere vissuta. E tu, sei stata felice?».
«Sì, ho avuto in tarda età quello che credevo non avrei avuto mai: un marito, dei nipoti. E sto vivendo l’emozione di una nipote che si sposa, sposa Antonio M., come io non ho potuto fare».
«Il destino, certe volte… lo cacci dalla porta e rientra dalla finestra. È vero?».
In quel momento sentimmo tossire.
Presi dal nostro colloquio, non ci eravamo accorti che era entrato qualcuno.
«Nonna, ma sei tu?».
Io e Antonio uscimmo insieme dai rispettivi bagni. Angelica era lì, paralizzata, con la faccia incredula.
Cercai di darmi un contegno. Sfoderai il mio sorriso migliore, mi avvicinai a lei, le presi il mento con la mano:
«Angelica, la vita a volte è molto complicata. Richiede molta fatica per essere vissuta, talmente tanta che ti dimentichi di essere felice. Ma tu non scordartelo mai, bambina mia» e mentre lo dicevo guardai fisso negli occhi Antonio. Quelle ultime parole erano rivolte a lui.
Angelica e Antonio si sposarono a maggio, come avevano previsto. Erano entrambi bellissimi, sembravano usciti da una rivista.
Luigi pianse tutto il tempo, e io anche. Piangevo di gioia per mia nipote, e anche per me stessa. Una parte di me stava sposando Antonio Da adolescenti si vuole avere tutto, l’intero mondo in proprio pugno. Da grandi si diventa saggi e si impara a godere anche di piccole soddisfazioni. In fondo, anche se in ritardo e per interposta persona, il mio sogno si stava realizzando.
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