storia vera di Jonathan F. raccolta da Elena Macchi
Non so esattamente il motivo per cui stasera mi trovo qui. Nella stessa sera del mio compleanno di 18 anni fa, il 19 marzo 2005. La differenza è che quel giorno io compivo cinque anni, mentre oggi ne compio 23. Ero qui con mia madre Alessandra che mi prometteva una sorpresa particolare, mi diceva che sarebbe stata una sorta di regalo di compleanno. Ho un ricordo molto marcato dello stato di curiosità in cui mi trovavo. Avevo voglia di chiedere di più, fare domande a mamma, avere qualche indizio. Qualcosa però mi bloccava, qualcosa che vedevo passare come un’ala scura e veloce, negli occhi così chiari di mamma. Era stato un lungo viaggio. In macchina, eravamo partiti in un’alba uggiosa e grigiastra, al confine tra l’inverno e la primavera, dal nostro piccolo paese sulle sponde del lago, diretti in una grande città del centro Italia. Avevamo masticato centinaia di chilometri, gli stessi che io ho ripercorso oggi, dopo tutti questi anni, per arrivare qui, questa volta da solo. Mia madre non ne sa nulla e nemmeno Lisa, la mia fidanzata, che fra poche settimane mi farà diventare papà. Un padre giovanissimo, come lo è stato anche il mio. Lui diventò papà a 19 anni, senza che lo sapesse. Chissà se come me, lo avesse saputo, avrebbe provato le mie stesse ansie e paure, indecisioni. Si sarebbe posto le mie stesse mille domande.
Passeggio avanti e indietro su questo marciapiede, non sapendo bene cosa fare, e mi sembra ancora di aspettarlo. Come non ho mai smesso di fare: quando guardavo le sue due uniche foto, quando facevo domande a mia madre, quando quella lontana sera, sono arrivato qui, infreddolito e assonnato, ma speranzoso. Di una speranza segreta, che non volevo raccontare, che avevo costruito dentro di me durante tutto quel lungo viaggio, setacciando a modo di un bambino, le diverse mete possibili.
E quella speranza non fu delusa perché quella sera mio padre lo incontrai davvero. Musica, tanta musica. Eravamo avvolti da armonie e luci. L’insegna luminosa sul portone del locale era una sagoma di lettere, accese e colorate, che io non sapevo decifrare. All’interno, sottili lame di luci blu, verdi, bianche, attraversavano il buio spezzandolo in strane figure geometriche che mi stupivano. Il locale era pieno di persone, chi seduto ai tavolini con un bicchiere, chi in pista a ballare. Sul palco l’orchestra teneva tutta la scena, che io guardavo ammirato. Non ero mai stato in un posto così brulicante di vita.
Di quella sera ho conservato un ricordo forte e nitido, indelebile contro qualsiasi altro evento. La mamma mi stringeva forte la mano e mi chiedeva se mi desse fastidio il volume della musica, l’intensità delle luci, se avessi voluto uscire dal locale. Io ero affascinato da tutto quel mondo che mi appariva di una fattura strana, di cui non avevo conoscenza. «Voglio stare qui» dicevo, seppur tappando le orecchie con le mani. «Qui mi piace, sono contento che mi hai portato!» urlavo per farmi sentire, mamma si abbassava, porgendo il suo orecchio all’altezza delle mie labbra.
Continuo a passeggiare, il mio sguardo si perde dentro al buio, oltre questo marciapiede. Il posto è qui, dentro il quartiere, che negli anni ha fatto una grande corsa, allungandosi verso la città. Ho fatto un po’ di ricerche su internet. So che il locale dove mio padre suonava non esiste più. Anche il portone d’ingresso è cambiato. L’insegna luminosa che ora saprei decifrare, sparita, inghiottita da tutto questo buio, questo silenzio. Io sono qua, per capire cosa devo fare e vorrei chiederlo a lui, che ci ha già provato a essere padre alla mia età. Ma s’è n’è andato, proprio mentre lo stavo aspettando, sulle rive del mio lago. Era partito da qui, per venire da me, ma il destino gli ha fatto cambiare destinazione.
La nostra storia è complicata, singolare. O forse no, è una storia come ce ne sono, e ce ne saranno tante altre. La mia storia e quella di mio padre è nata piano, passo per passo, pezzo per pezzo. Come se su un tavolo, per decisione improvvisa, si rovesciassero tanti piccoli pezzi di puzzle e le mani, pazientemente, con delicatezza, ricercando e confrontando quelli con l’incastro giusto, li mettessero insieme, fino a comporre la figura completa, quella finale che orgogliosa si mostra a tutti.
Per noi quel finale è rimasto incompiuto, spezzato dagli eventi tragici della vita.
Non posso dire di essere figlio di una spensierata avventura estiva. I miei genitori non lo meritano. Si conobbero presso un villaggio turistico, nella lontana estate del 1999. Mio padre faceva il batterista in una band, mamma la corista. Stettero insieme tutta l’estate, innamorati persi, nonostante la grande differenza di età.
Quando mia madre scoprì di essere incinta, aveva 25 anni, mio padre 18. La stagione turistica era già avanzata e alla sua conclusione si sarebbero sicuramente persi di vista. Mamma era terrorizzata. Come poteva credere che un ragazzo appena maggiorenne, potesse prendere la responsabilità di un figlio? Capiva di non poterlo tenere legato a lei con un evento che si annunciava all’improvviso, e dal sapore di sorpresa adrenalinica. No, non glielo avrebbe mai raccontato. Non gli avrebbe rivoltato la vita nelle mani. Sarebbe partita, salutandolo con un bacio, promettendogli un arrivederci, futuri contatti che sarebbero senza dubbio stati condivisi. Mi avrebbe cresciuto da sola, assicurandomi lei, per tutto quello di cui avrei avuto bisogno. Certa dell’aiuto della sua famiglia.
Domenico, questo era il suo nome. Non so se quella sera mi aspettasse, se fosse stato avvisato da mia madre del nostro arrivo a Roma. Se fosse anche per lui, come per me, una situazione inaspettata, difficile da gestire.
Mi siedo sul marciapiede, davanti a questo portone nuovo e triste, poco illuminato. Non conosco i dettagli precisi di cosa sia avvenuto esattamente nella sera di quel 19 marzo 2005. Ma so che io e mia madre eravamo lì, perché lei gli aveva rivelato della mia esistenza, dopo aver avuto una diagnosi neurologica di sclerosi multipla, una malattia del sistema nervoso centrale, progressivamente invalidante. Io lo seppi molto più tardi, quando lei non potè più nascondere i segnali della malattia che avanzava.
Quando Domenico, quel ragazzo di 24 anni, mi fu davanti con il suo sorriso accogliente a cui non solo le labbra partecipavano, ma gli occhi soprattutto, molto simili ai miei nel taglio e nel colore scuro. Non potevo sapere cosa gli si agitasse dentro, ma sono certo che se fosse stato un cattivo sentimento, non avrebbe potuto sorridermi così. I capelli gli riempivano il capo con ricci piuttosto lunghi e scomposti. Indossava una grossa catena con una croce di strass. La stessa che ora indosso io, qui, e durante le mie serate di musica. Una lunga camicia bianca, sbottonata fino a metà, e un paio di pantaloni a quadri grandi. Le mani con le dita magre, eleganti e nervose, stringevano le bacchette per batteria, che io osservavo guardingo, chiedendomi cosa fossero.
Non era un orco quel ragazzo. Era forse il mio papà? No, mi stavo sbagliando. Lui era troppo diverso da quelli che vedevo accompagnati ai miei amici. Non era quella la mia immagine di un papà. Lui aveva qualcosa di diverso per esserlo, qualcosa di speciale che profumava di allegria, e a me piaceva immensamente. E fu proprio con quella domanda negli occhi, che mi rivolsi a quelli di mia madre. Lei mi fece “sì” con un cenno del capo. Allora guardai il suo sorriso, ancora fermo su di me, e capii, ne ebbi la conferma. Era lui mio papà. Eravamo tutti stretti nel cerchio dell’imbarazzo, fu mio padre, ad allargarne i contorni fino a dissolverlo: «Jona, ti starai chiedendo a cosa servano queste bacchette, vero?» disse con un tono che aveva insito il sorriso. Io ero senza parole, senza respiro, immobile davanti a lui. «Si chiamano drum stick, e picchiano forte sugli strumenti della batteria, eccole, vuoi provarle anche tu?».
Timido e indeciso, allungai comunque la mano e le presi. Mio padre mi guidò fin sul palco. Le luci si erano riaccese, la gente aveva smesso di ballare, e si avviava verso l’uscita. Regolò in altezza lo sgabello, e mi fece sedere, poi mi prese le bacchette dalle mani e le picchiò forte, ritmicamente sul piatto, per poi fare la stessa cosa sul rullante, lo spazio attorno a noi, si riempì di note, e per me fu pura magia.
Mi innamorai all’istante di quel ragazzo, che era mio padre, e di quella musica, che ora è diventata il mio lavoro. «Queste da oggi sono tue, se vorrai imparare a suonare, te lo insegnerò». Ero totalmente confuso, chiuso in emozioni molto più grandi di me. Non sapevo che dire, ma all’improvviso mi ricordai che quella sera, oltre a essere il mio compleanno era anche la sua festa. «Auguri papà!».
Lui mi prese tra le braccia per la prima volta, in quel gesto goffo, che non era certo di sua abitudine, mi strinse piano, quasi timidamente, e in un sussurro: «E a te, buon compleanno Jona». Mio padre volle riconoscermi, dandomi il suo cognome. Lui e mamma non fecero mai più coppia. A me importava solo di avere finalmente un padre, poterlo dire a tutti i miei amici, perché lui era un papà speciale, frizzante, un papà con cui potevo giocare.
Cominciava così la mia nuova vita, fatta di incontri con lui che non avvenivano quasi mai nei fine settimana e nelle feste, a causa del suo lavoro. Arrivava nei giorni infrasettimanali, con un carico di dolcetti colorati, a volte qualche gioco per me. Io avevo da poco cominciato la scuola e lui veniva ad aspettarmi all’uscita. Felice così non lo ero mai stato. Camminavo al suo fianco e mi sembrava di essere un re. Potevo fare tutto il tragitto da scuola a casa, stretto alla sua mano, mostrando a tutti quel papà così diverso e sempre pieno di allegria, che sapeva farmi ridere e inventare giochi nuovi per me. Papà in quei pomeriggi mi aiutava nei compiti. Lui era fortissimo in matematica, io molto meno. Mi parlava dei luoghi che aveva visto mentre era in tournée con la sua band. Mi parlava della sua musica, descrivendomela con così grande trasporto, che presto imparai ad amarla. Io pendevo dalle sue labbra, e quando ero con lui le mie giornate si coloravano di sole e di calore. E venne ancora un altro compleanno, un’altra festa del papà, a cui lui non faceva mai mancare la sua presenza. Mi diceva che noi eravamo l’uno per l’altro il nostro miglior reciproco regalo.
Quel compleanno segnò una svolta che ancora mi accompagna nella vita. Qui, sempre seduto su questo freddo e umido marciapiede, davanti al portone moderno e buio, mi stringo il piumino addosso. Chiudo gli occhi. Le palpebre come un sipario che cala sulla scena reale. Mi immergo in quel giorno. Il salone è stato addobbato a festa, mamma ha preparato due torte: su una ci sono 10 candeline e il mio nome, sull’altra c’è una targhetta con scritto “Per papà. Auguri, Jona”.
Lui è lì con me, mentre eccitatissimo sollevo un voluminoso foglio di pesante carta da pacco, e scopro un’intera batteria! Timpano, rullante, piatti. Rimango stupito e senza parole, poi corro verso papà e mi appendo al suo collo coprendolo di baci. Battendo e ribattendo, ritmando suoni e parole, con i vecchi drum stick che papà mi aveva regalato al nostro primo incontro, capii di amare a tal punto la musica da volerne fare il mio mestiere. Ogni volta che tornava, voleva vedere i miei progressi, sentirmi alla batteria. Trascorrevamo interi pomeriggi insieme, ma non parlavamo solo di musica, anche di tutto quello che ci passava per la testa. La nostra confidenza aumentava sempre di più. Anche se lui ha cominciato a essere padre in ritardo, e lo è stato per poco tempo, aveva una predisposizione naturale nel farsi amare dai bambini. Forse non se n’era mai reso conto, ma era nato per essere padre. Anche i miei amici lo adoravano, lui sapeva mettersi in gioco, disponibile verso tutti.
Gli anni passavano, io diventavo sempre più bravo, alla batteria, seguivo delle lezioni dedicate. «Jona, voglio farti un regalo che hai dimostrato di meritare. La prossima settimana verrai sul palco con me e la band, suoneremo insieme». Non potevo crederci, papà mi stava offrendo un’occasione da sogno. Avrei suonato in un locale, davanti a tantissime persone e forse ricevuto anche applausi, come un vero professionista. Cominciai un allenamento quotidiano frenetico e costante, tanto da infastidire anche mamma, che mi costrinse a trasportare la batteria nel garage esterno alla casa.
Sono pronto! Svelto e mattiniero nella luce lattiginosa dell’alba che entra dalla piccola finestrella del garage, assesto gli ultimi colpi sul rullante, mentre aspetto papà che è in ritardo. Lo aspetto tranquillo. Ora un po’ più nervoso. Ora spazientito, uscendo sulla strada. Ora preoccupato dal ritardo che si accumula sulle lancette dell’orologio. Poi, straziato da un dolore sordo, che non so affrontare, da una rabbia che a 14 anni, non so dominare. Lo aspetto ancora, sapendo che non sarebbe più venuto da me.
L’avevo perso per sempre, in uno schianto all’altezza di un chilometro qualunque di quella maledetta autostrada, che oggi, ho ripercorso per ritornare qui, su questo marciapiede, davanti al buio della strada e non sotto le luci di quel palcoscenico mancato. Proprio qui, per salutarlo un’ultima volta, per riuscire a trovare quell’ultimo pezzo di puzzle, e finalmente ricomporlo con l’immagine finale, per tenerla nell’anima.
La vibrazione del mio telefono attraversa la tasca dei miei jeans. È mia madre. «Jona, dove sei? Lisa è in ospedale, fra poco nascerà la bambina, gli si sono rotte le acque, non c’era nessuno con lei! I genitori erano al lavoro, ha chiamato un’ambulanza. Cosa hai deciso di fare per il riconoscimento?» mia madre urla al telefono. Io tremo e ho gli occhi pieni di lacrime, la voce esce a spezzoni: «Mamma, dille che ci sarò. La mia bambina non mi dovrà aspettare. Ci sarò, come c’è stato papà!».
Sono in viaggio per il ritorno. Sto andando a conoscere mia figlia, quando arriverò, lei probabilmente sarà già nata. Ma io ci sarò, perché anche io e lei siamo un reciproco regalo, in questo meraviglioso compleanno, con festa del papà.●
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Pubblicato su Confidenze n. 11 2023
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