Un single insopportabile

Cuore
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“Un single insopportabile” di Guglielmo Pizzinelli, pubblicata sul n. 2 di Confidenze, è una delle storie vere più apprezzate della settimana. Ve la riproponiamo sul blog

 

La mia amica Elena mi aveva organizzato un appuntamento al buio e io le avevo promesso che non sarei stata il solito istrice. Ma era difficile di fronte a un uomo pieno di sé e… affascinante

Storia vera di Sara T. raccolta da Guglielmo Pizzinelli

 

Alzai gli occhi dal menu quando avvertii una presenza in piedi accanto al tavolino. «I signori vogliono ordinare?». «Sì, grazie» risposi educatamente. Scelsi il primo, un piatto pugliese. Alzai lo sguardo su Michele che sorrise e chiese delle complesse fettuccine che io avevo scartato.

Da molto tempo non accettavo un invito a cena da parte di un uomo. Ma da qualche mese provavo a rimettere timidamente fuori la testa dopo un lungo periodo di totale dedizione al lavoro. Magari tentando di uscire da quella che la mia amica Elisa chiamava “la tua splendida singolaggine”. Anzi, a dirla tutta, se quella sera mi ritrovavo in un ristorante con un compagno di cena, descritto da lei come attraente e facoltoso, era perché Elisa aveva questa mania di combinare appuntamenti al buio alle amiche più intime. Mi ero detta: “Che diamine, perché no: prendiamola come fosse un gioco”.

«Ottima scelta la tua» sentenziò. «E da bere?» aggiunse facendo un cenno con il mento per indicare al cameriere di ascoltare prima il mio parere.

Esitai. Avevo avuto l’impressione che volesse mettermi alla prova, dopo aver considerato la mia scelta del cibo. «Io gradirei dell’acqua liscia, non fredda. Il vino lo faccio scegliere al signore, grazie». Con quello stratagemma, mi resi conto, stavo testando la reazione del mio accompagnatore. Se in generale ero di temperamento battagliero, andavo subito in allerta con gli uomini che sembravano volermi mettere sotto un vetrino sin dalle prime battute. E poi, a scegliere il vino giusto da abbinare al cibo ero davvero negata. Sul viso di Michele si dipinse un sorrisetto che pareva beffardo e sembrava voler dire: «Bel modo di dribblare, ci avrei scommesso». Dio santo. Era così o me lo stavo immaginando? Mi venivano in mente le parole di Elisa al telefono: mi avvertiva che lei l’appuntamento me lo combinava volentieri, ma io dovevo prometterle che non sarei stata il solito istrice con il tizio di turno.

«Vada per la scelta New Age: anche per me acqua, gassata però». Mi sporsi leggermente verso di lui con, stampata in faccia, una domanda scritta con caratteri al neon: scelta New Age? E questo che vorrebbe dire?

Michele allungò una mano con fare innocente verso la focaccetta azima che ci era stata portata e ne prese un pezzetto, poi alzò il cestino e me lo avvicinò. «No, è che non mi va di bere da solo» spiegò.

Specificò che era venuto un paio di volte qui con degli amici, mai con una donna. Lo disse come se io fossi stata sul punto di dubitarne; notai di nuovo, in soli pochi minuti, che il suo modo di essere educato e formale sembrava basarsi su una certa irritante sicurezza di sé. Sono una persona diretta, in genere dico in faccia quello che penso della gente. Lui sembrava essere invece il tipo che fa vaghe allusioni, battutine, riferimenti trasversali. Nella conversazione spicciola che seguì, mi accorsi che aveva preso una posizione comoda, con la schiena morbidamente appoggiata allo schienale, mentre mi osservava con attenzione distaccata, come se fosse in attesa che lo impressionassi. Con lo stesso tono che aveva usato per parlarmi del locale, mi chiese a un tratto: «Forza, raccontami qualcosa di te. Che lavoro fai?».

Presi una posizione più rigida, poggiando i gomiti sul tavolo e chiudendo con due dita la scollatura del vestito, lì dove avevo colto il suo occhio furbetto scendere rapido. Lui registrò il gesto e strizzò gli occhi come a dire: “Davvero c’era bisogno?”. Dio, che espressione irritante! Risposi che lavoravo nella concessionaria di automobili più grande della città come amministratore.

«Ah… Interessante. Una donna che capisce di auto». Fece un mezzo sorriso. Lo fissai senza espressione, chiedendomi se avessi inteso bene. In tutta la sua frase mi aveva colpita solo una parola: “capisce”. Ma non ero certa che l’avesse detto con sottile disprezzo, solo con curiosità. Risposi che per fare il mio lavoro non era necessario, ma che sì, ormai sapevo di auto molto più della media degli uomini.

«Ottimo» replicò come se attendessimo tutti la sua approvazione. «Io sono un mercante d’arte. Faccio questo lavoro perché non so dipingere. Giudico quello che fanno gli altri e gli do un valore».

 

 

Non potei fare a meno di replicare che sì, avevo notato che era abituato a giudicare. Lui alzò un sopracciglio e disse che era solo realista. E sincero: non gli piaceva dire cose in cui non credeva.

«Non hai mai mentito, quindi?» provocai.

Fece una risata. Quest’uomo era davvero strano: prendeva ogni mia domanda come il prodotto di un esserino buffo e divertente. Rispose che lo aveva fatto un sacco di volte. Era la natura del suo stesso lavoro che lo portava a farlo. Ma precisò che non riusciva a essere ossequioso per forza nei rapporti personali.

Stavo per aprire bocca e rispondergli che si vedeva benissimo, ma mi frenai. Mi rendevo conto di non riuscire a capire se il suo atteggiamento m’irritava oppure m’incuriosiva. Era la prima volta che mi sentivo incapace di valutare un uomo nel suo modo di porsi. Certo, il fatto che fosse un bell’uomo, elegante, raffinato mi spingeva a dargli credito.

Riprese a parlare. Mi chiesi se era il tipo che amava dare aria alla bocca e a cui piaceva il suono della propria voce. Così cercai di coglierlo in fallo nel suo argomentare. Ma lui, per tutta risposta, chiamò il cameriere e ordinò il secondo, attendendo con pazienza che decidessi anche io quale piatto prendere.

Quando il cameriere si allontanò, lo stuzzicai. «Ma tu sei sempre così… Sarcastico e spinoso?».

«A volte capita» disse accompagnando le parole con un gesto vago della mano. Gli chiesi come avesse scelto di fare quel mestiere e lui rispose che non l’aveva scelto davvero, ci era cresciuto dentro: lo facevano suo padre e, ancor prima, suo nonno, ma lui avrebbe voluto essere un pittore. Mi raccontò della prima volta che proprio il nonno lo aveva portato al Musée d’Orsay, a Parigi, e della fascinazione che aveva subito davanti a quei dipinti, anche se aveva solo 12 anni. Lì, aveva sentito il desiderio di provare a dipingere: essere davanti a una tela intonsa su cui tracciare segni e figure, riempirla di colore, ombre, sfumature. Trasferirvi sopra tutto quello che si agitava nell’anima.

Presi l’occasione al volo e gli chiesi se fosse una persona inquieta. «Ah, sapessi» rispose lui con sguardo malandrino.

Decisi allora di pressarlo. Attaccando il secondo, specificai che, secondo me, la vera arte era quella che aveva trovato un suo posto nei musei; sostenni anche che le invenzioni degli artisti contemporanei altro non erano che una ricerca spasmodica di un palcoscenico, di un cono di luce. Insomma, mi chiedevo chi potesse essere disposto a pagare grosse cifre per opere che non inventavano più nulla di originale.

Michele mi fissò serio per qualche secondo, poi scoppiò a ridere senza trattenersi. «Be’, grazie, eh! Fortuna che non tutti la pensano come te, direi. Ma senti questa!». Lo disse con un tono difficile da interpretare: voleva dire che ero piuttosto ignorante, o semplicemente incompetente sull’argomento, o, più banalmente, che avevo detto una cretinata?

«Però sai che hai ragione? Voglio dire: ripensandoci, avrei fatto meglio a lasciar perdere la cultura e mettermi a vendere automobili anche io!».

Mi irrigidii ulteriormente. Stava per caso insinuando che vendere auto fosse un lavoro di meno valore che occuparsi di opere d’arte? Piccata, gli feci notare che comunque nella mia concessionaria si vendevano solo marchi di pregio.

«Ah, certo. Grazie della precisazione. Consiglierò alla mia clientela di visitare il tuo autosalone invece che venire in galleria» disse ridendo di gusto.

“Che spocchioso insopportabile” pensai. Ma chi si credeva di essere? Lo fulminai con un paio di occhiatacce e lui parve essere stimolato e incuriosito dalla mia reazione. Tanto che, dopo aver sorseggiato del vino e scorso la lista dei dolci, decise che avremmo dovuto tutti e due provare la meringa con il cioccolato perché, precisò, lì la facevano buonissima. E prima che potessi dire la mia, ne aveva ordinate due al cameriere.

Rimasi come un’ebete con il mio menu in mano. Lo fissavo incapace di trovare le parole per fargli notare che non mi aveva permesso di scegliere liberamente. Mi capì lo stesso.

«Oh, andiamo» fece. «Per una volta puoi fidarti di un uomo che ha davvero gusto? Vedrai che sarà ottimo! Piuttosto, vuoi provare a dirmi come mai sei single? Sì, insomma, cosa c’è sotto?».

 

 

Ero allibita. Continuava a inanellarne una dietro l’altra, provocandomi a ogni passo. Non sapevo bene come reagire, anche perché non me ne dava il tempo. Non mi era mai capitato di uscire con un uomo che si prendeva queste libertà al primo incontro. Perché ero single? Non sapevo neanche se prenderlo sul serio o meno. Mi metteva in difficoltà il suo stile, il fatto che saltasse da un argomento a un altro senza apparente filo logico.

Aggiunse, vista la mia esitazione, che ormai tutte le persone con un minimo d’intelligenza privilegiano la vita da single perché hanno capito che non possono esistere matrimoni e convivenze di lunga durata. Questo suo pontificare con sicumera mi faceva sorgere il sospetto di trovarmi davanti a uno scapolone incallito, uno di quelli che seducono le donne per portarsele a letto e poi arrivederci e grazie.

«Nessuno ti ha mai detto che sei giusto un pochetto cinico?» lo apostrofai.

«Lo so cosa intendi…» disse e annuì con un’espressione che sembrava volersi schermire. «So avere molto charme quando la situazione lo richiede».

Scoppiai a ridere per l’assurdità del suo tono, ma intanto cercavo di capire se parlava sul serio o se si stava prendendo in giro.

Poi, inaspettatamente, sbocconcellando la meringa al cioccolato, mise in fila tre complimenti diretti rivolti al mio aspetto: lodò il vestito, il taglio di capelli e gli occhi.

“Ecco” pensai, “qui dev’essere quando comincia la manovra di fine serata per condurle al suo appartamento…”.

Cercando una battuta efficace, lo ringraziai con finta umiltà: gli dissi che avevo fatto un grande sforzo per provare a essere all’altezza degli standard di un facoltoso e suadente mercante d’arte.

Rise alla mia risposta, mentre sorseggiavo un po’ d’acqua e buttavo giù il resto del mio dolce. Volsi lo sguardo al locale: era quasi vuoto. Notai che si era fatto abbastanza tardi. Michele sicuramente era strano e difficile da capire, a tratti ostico e persino irritante con quella spavalderia che sembrava naturale, per niente affettata. Eppure mi piaceva stare al suo gioco, lasciarmi provocare e continuare a chiacchierare. Mi sorprendevo ad aspettare con curiosità le sue battute e non mi ero accorta che il tempo era volato. Finì il suo vino e poi batté piano le mani, come a dare uno stop. «Che dici? Chiediamo il conto e usciamo a fare due passi? Ah, naturalmente facciamo alla romana, eh?».

Lo fissai credendo, sperando, di aver udito male. La mia regola personale è che chi dei due invita l’altro a cena ha l’obbligo di pagare. Dopo la prima uscita, casomai, si può offrire una volta per uno, o anche accordarsi per dividere. Ma da uno che si atteggiava in quel modo mi sarei aspettata che fosse lui a offrire, anche se questo era stato un appuntamento organizzato. Quando vide che non rispondevo, scoppiò a ridere e disse: «Avresti dovuto vedere la tua faccia».

“Come non detto” pensai. “Questo qui vuole davvero indispettirmi e basta, altro che sedurmi!”. Guardai l’ora: era mezzanotte passata e non me n’ero nemmeno accorta. Il giorno dopo mi sarei dovuta alzare praticamente all’alba.

Ancora divertito dallo scherzo, Michele pagò il conto con la sua carta di credito mentre io raccoglievo borsa e giubbetto e mi alzavo, precisando che era ora che tornassi a casa. Usciti dal ristorante, fu piacevole constatare che l’aria era mite nonostante l’ottobre inoltrato. Lo ringraziai della serata e dissi che avrei preso un taxi. Michele sembrò sorpreso: con le mani dentro le tasche della giacca ondeggiava su se stesso rimanendo fermo, proprio come un ragazzino.

Visto che non dava cenno di risposta, mi voltai verso la strada per guardare se passava un taxi. Fu allora che sentii una mano trattenermi per il braccio. Lo guardai e il suo viso era improvvisamente vicinissimo al mio, gli occhi negli occhi.

«Allora facciamo sabato sera?» chiese.

Risposi istintivamente: «Sabato sera cosa, scusa?».

 

 

Michele si sporse e con un gesto calcolato e misurato appoggiò la bocca sul mio viso, lasciando che si avvicinasse alle labbra. Percepii l’umido mentre mi sfiorava con delicatezza. Avrei dovuto ritrarmi di colpo, ma non ero stata capace, incantata dal profumo di uomo e dalla presa salda sul mio braccio.

«D’accordo, allora. Ti chiamo sabato mattina per conferma. Buonanotte».

Quando si voltò per andarsene, dopo avermi rivolto l’ultimo sorriso, la mia mano corse alle labbra, come a sentire se lui fosse ancora lì.

Michele camminava deciso, a passo svelto, senza girarsi. Rimasi qualche secondo immobile, poi riuscii a riprendermi. Ero lì con un piede sulla strada e uno sul marciapiede, il cuore che batteva più forte del normale, lo sguardo incollato alla schiena di un uomo insopportabile, pieno di sé, presuntuoso, convinto di poter fare colpo sulle donne con quattro battute. Aveva un sorriso mozzafiato, d’accordo, ma era spocchioso e altero.

Ripensai a quanto mi aveva indispettita. Era irritante, ma anche affascinante, dovevo ammetterlo. “Sabato sera?” pensai mentre il mio viso si apriva in un sorriso. “No di certo. O sì? Forse… Perché no?”.

 

 

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