Nonna Irma aveva solo il suo amore per Giorgio e un biglietto per la nave quando lasciò la Sicilia per il Missouri. Insieme, volevano aprire un ristorante. All’inizio fu un furgoncino, poi le cose ingranarono. Oggi tocca a me raccogliere il loro testimone
Storia vera di Melanie F. raccolta da Alessandra Maria Mazzara
Tutti gli ingredienti sono ben disposti sul piano da lavoro della cucina. Il profumo pungente del pomodoro si mescola con quello dolce delle melanzane che friggono e riempie le stanze di questa casetta a due piani, alla periferia di una piccola cittadina a sud del Missouri. È una fredda mattina d’inverno, quella di oggi. Dalla finestra osservo in cielo nuvoloni grigi avanzare minacciosi, mentre con una forchetta tolgo dalla padella le fette di melanzane e le metto ad asciugare su fogli di carta assorbente. Nonna Irma arriva in cucina con passo svelto.
1Buongiorno, nicaredda» mi dice sorridendo. Annoda il grembiule attorno ai fianchi, poi spezza un po’ di pane e lo intinge nella salsa.
«Dolce, come piace a me» mi dice nonna in italiano.
«Grazie, nonna» le rispondo io in inglese.
È sempre così, tra noi. Nonna vive negli Stati Uniti da più di sessant’anni, eppure non ha mai smesso di parlare in famiglia nella sua lingua d’origine. Credo sia per lei un modo per ricordare e ricordarci da dove viene: la Sicilia, quell’isola baciata dal mare e dal sole in cui nonna Irma ha lasciato così tanti ricordi quando, poco più che ventenne, s’imbarcò per andare incontro ad un nuovo capitolo della sua vita, l’immensità dell’oceano davanti a sé e un futuro ancora troppo lontano per intravederne anche solo i contorni.
Chi l’aveva mai vista, l’America?
Nata quando ancora si respirava nell’aria l’odore della morte e della povertà di una guerra che sembrava non voler finire, Irma non aveva mai lasciato il suo paesino d’origine, una cittadina arroccata sulle Madonie. Laggiù nonna era cresciuta in una dimensione dove tutto aveva un posto predeterminato dalla biologia: i masculi fuori e le fimmine dentro. Irma aveva subito capito che non c’era via d’uscita. Eppure, sognava di andare via, una volta diventata grande. Sognava Palermo, la grande città, immaginando per sé una vita diversa da quella di tutte le donne del paesino intero, piegate dalle gravidanze, dall’obbedienza e dall’umiliazione.
Quando compì quattordici anni, Irma si prese di coraggio e chiese al padre il permesso di andare a servizio presso una famiglia raccomandata di Palermo che cercava una domestica fidata. Il no che aveva ricevuto aveva fatto più male di uno schiaffo. Era una femmina. Solo le buttane andavano a Palermo e lui una figlia chiacchierata non la voleva.
Quante lacrime, cullata tra le braccia della madre.
«Figghia mia» le sussurrava, «noi femmine dobbiamo obbedire e basta. Non si vive di sogni, Irma».
E, così, Irma restò a casa a cambiare i panni sporchi, a stirare, a mescolare minestroni, a strofinare lenzuola, a spazzare i pavimenti…
Poi, accadde che sua madre morì. Il padre si risposò sei mesi dopo con una del paese, una zitella secca e scontrosa che nessuno aveva voluto per via degli occhi strabici.
«Ora che tua madre è morta, è a Concetta che devi obbedire».
Seguirono altri figli, altri panni per Irma da strofinare, altri bambini da allevare, mentre Concetta faceva la signora. Per Irma fu davvero troppo. Così, in una mattina di fine febbraio fredda da far male, Irma decise che il suo tempo in quel paese era finito ed era salita sulla prima corriera lasciandosi tutto alle spalle: il paese, l’ignoranza di suo padre, le urla della matrigna, la tristezza fredda e nuda della tomba di sua madre e tutto quello che fino a quel momento era stata la vita per lei, l’unica che aveva conosciuto.
Quel giorno il maestrale soffiava severo e impetuoso su Palermo. Stretta nel suo soprabito, Irma aveva camminato e camminato ancora, ammaliata dal fascino della grande città.Tutto per lei era meravigliosamente nuovo.
Proseguì incantata finché la stanchezza e un insistente borbottio allo stomaco non la costrinsero a fermarsi. Svoltò su via Vittorio Emanuele e salì i sei gradini in pietra della chiesa di San Giuseppe dei Teatini. Si inginocchiò e si segnò tre volte col segno di croce, poi si diresse verso la sagrestia, a passo svelto.
«Aiutatemi a trovare un lavoro onesto».
Il vecchio prete canuto, curvo dietro la scrivania, era totalmente assorbito dalla lettura del breviario. Alzò gli occhi su quella ragazza dal viso pallido che lo guardava speranzosa e provò un moto di misericordiosa pietà per lei.
«Sai leggere e scrivere, figliola?».
«Sì, Padre».
«E fare di conto».
«Sì. Aiutatemi, ve ne prego».
Il prete aveva annuito. Chiuso il breviario, aveva tirato fuori da un cassetto un foglietto e una penna.
«Va’ a questo indirizzo, dì che ti manda padre Celestino e chiedi di donna Adele. È una benefattrice di questa chiesa».
«Vi ringrazio, Padre».
«Non ringraziare me, ma la Provvidenza. Va’, figliola. E che Dio ti benedica».
Una leggera pioggerellina aveva iniziato a venire giù. Irma aveva proseguito fino all’indirizzo indicato sul foglietto, il capo coperto da un vecchio scialle. Il palazzo nobiliare si ergeva in tutta la sua potenza tanto da intimorirla.
«Mi manda padre Celestino. Vorrei parlare con donna Adele».
Quanta ricchezza! Chi l’aveva viste mai tutte quelle cose, quegli specchi, quei tappeti…
«Chiunque inviatomi da padre Celestino si è poi rivelato per me un piccolo regalo dal cielo».
Irma si era voltata. Una signora dall’aspetto impeccabile le si stava avvicinando.
«Domitilla, puoi andare», disse la donna rivolgendosi alla domestica. «Prego, cara: accomodati», disse poi ad Irma, «Io sono donna Adele» proseguì prendendo posto e indicandole il divanetto di velluto bordeaux.
Irma si era seduta, imbarazzata. Le sudavano le mani.
«Lieta di conoscerla, donna Adele. Vi ringrazio per avermi permesso di incontrarvi…».
«Non devi, cara. Piuttosto, dimmi come ti chiami».
Irma aveva inghiottito un groppo di saliva fermo in gola. «Mi… mi chiamo Irma…e sono qui perché ho bisogno di un lavoro onesto e…», aveva abbassato gli occhi, «E di un tetto sotto cui stare. Almeno finché non sarò in grado di provvedere da me».
Donna Adele le aveva preso una mano. «Coraggio, piccola. La vita a volte può essere davvero dura, ma qui sei al sicuro, non temere. Te la cavi in cucina?».
Irma aveva annuito.
«Bene. Comincerai domani».
«Vi ringrazio dal profondo del cuore, donna Adele, io…».
«Non guardarti più indietro, cara. Oggi ha inizio la tua nuova vita».
Altro che cucina.
Quella del Palazzo era un’enorme stanza ricca di ogni elettrodomestico e utensile e mobile che Irma mai aveva visto, né tantomeno potuto anche solo immaginare. Era entrata in punta di piedi e subito era stata investita dai vapori e dall’intenso profumo di sugo, carne e aglio.
«Tu devi essere quella nuova. Forza, annoda il grembiule e mettiamoci al lavoro. Oggi al Palazzo c’è una visita importante e la signora ha stilato un menù che le nostre quattro mani neanche basteranno, vedrai. Ah, io sono Giorgio».
Un ragazzo dai capelli biondi e gli occhi grandi e scuri le aveva offerto la mano, un po’ sporca di farina.
«Io sono Irma. Lieta di cono…».
«Devi legare i capelli e mettere una di quelle cuffiette che trovi appese a quel chiodo, laggiù», l’aveva interrotta indicando col mento una parete piena di grembiuli e cuffiette. Irma aveva obbedito, mentre Giorgio mescolava qualcosa che cuoceva e borbottava dentro un pentolone.
«Non è che potresti occuparti tu della caponata…come hai detto che ti chiami?».
«Irma».
«Ah, giusto, Irma. Non lasciarti impressionare dalla mole di lavoro. Solitamente i menù sono molto semplici, ma oggi è così».
«La fatica non mi spaventa».
«Be’, questo è a tuo favore, allora. La cucina è un posto meraviglioso e terribile insieme. Ma quante soddisfazioni!».
«Sei qua da molto?», gli aveva chiesto.
«Parecchio. Ma non è qui che voglio finire i miei giorni. Per carità, donna Adele è per me come una madre, ma sogno di andarmene per conto mio. Un sogno così grande che a volte mi spaventa…».
Irma lo aveva guardato curiosa.
“L’America!” aveva risposto Giorgio ad una domanda che nessuno gli aveva fatto gonfiando il petto, un mestolo sporco di sugo nella mano destra e il grembiule sporco di olio.
«Voglio aprire un ristorante tutto mio nel Missouri, dove anni fa andò mio zio. Fece fortuna, poi tornò. Io, invece, andrò per restare».
Giorgio aveva assaggiato il sugo e spento i fuochi. Si era spostato, poi, al bancone dei dolci e iniziato a riempire le bucce dei cannoli di ricotta.
«L’America è la terra delle opportunità, Irma. E io voglio fare le cose in grande!».
Le aveva sorriso e Irma si era sentita improvvisamente avvampare nel notare una piccola, dolcissima fossetta sulla guancia destra di lui. Un miscuglio di sensazioni strane aveva iniziato a farle girare lo stomaco e la testa. Giorgio era davvero bello. Cos’era quello sfarfallio che sentiva allo stomaco?
Chi mai le aveva provate e che nome avevano, quelle emozioni così belle, al solo guardarlo?
Si erano innamorati in quella cucina, di un amore così potente da togliere il sonno. Irma aveva vent’anni quando scoprì di aspettare un bambino. Sei lunghi, bellissimi anni erano passati da quel suo timido arrivo al palazzo…
Si sposarono in una tiepida mattina di fine aprile in una piccola cappella, Giorgio con un abito troppo largo, Irma con uno preso in prestito. Dopo la cerimonia, donna Adele aveva convocato i due novelli sposi presso il suo studio e consegnato a Giorgio due buste.
Giorgio aveva aperto la prima: era piena di banconote. La seconda, invece, conteneva biglietti di sola andata per l’America.
«Non posso accettare, donna Adele. È davvero troppo».
Donna Adele lo aveva fermato con un gesto della mano. «È arrivato il tempo di realizzarlo, questo sogno, Giorgio. Va’, prendi tua moglie per mano, sali con lei su quella nave e non guardatevi più indietro».
E così, con una valigia per due e una nuova vita nel grembo, Irma era salita a bordo della Cristallina, tenendosi stretta a Giorgio.
Davanti a loro, l’oceano e il loro sogno.
E il Missouri, sempre più vicino.
All’inizio fu un furgoncino itinerante, tutto dipinto di giallo. Giorgio cucinava, Irma alla cassa con la piccola Natalia in braccio o attaccata al seno. Negli anni a seguire girarono tutto il Missouri a tappe di un anno ciascuna. Nel frattempo, la famiglia cresceva: dopo Natalia arrivarono Damiano e Maria. E, nell’inverno del 1968, la piccola Adele.
«Sono stanca, tesoro», disse una mattina Irma a Giorgio. Irma cominciava a sentirsi davvero sopraffatta. «Fermiamoci. I nostri figli hanno bisogno di stabilità».
Giorgio aveva annuito. Sua moglie aveva ragione.
Scelsero una graziosa cittadina al sud. Vendettero il furgoncino e con il ricavato, unito ai risparmi di una vita di sacrifici, comprarono una casetta in periferia, presero in affitto un piccolo locale e lo trasformarono in una tavola calda.
I mesi diventarono anni. Gli affari prosperavano, il sogno di Giorgio si stava davvero realizzando. Quando comprarono un locale con tre ampie sale fu chiaro ad entrambi che il loro sogno americano era andato ben oltre le aspettative.
Poi, Giorgio morì improvvisamente in una triste sera d’estate umida e senza stelle. Irma aveva 57 anni. Asciugò le lacrime e con il cuore a pezzi promise a se stessa che avrebbe mandato avanti il sogno del suo Giorgio, costasse tutta la fatica del mondo. Si rimboccò le maniche e prese con coraggio le redini di quella che si era trasformata in una vera e propria azienda di famiglia, occupandosi di tutto, della gestione del personale, delle questioni economiche, dei rapporti con i fornitori, degli allestimenti.
Andò avanti così per molto tempo, fino ad una sua brillante intuizione: unire alla tavola calda un servizio di catering. Irma ci aveva visto lungo. Ben presto la sua attività divenne una garanzia, con diverse succursali nel Missouri, un numero incredibile di dipendenti e una richiesta costante per celebrazioni di vario tipo. Il giorno del suo settantunesimo compleanno, con una grande festa di commiato, Irma passò il testimone ai figli. Si ritirò nella sua casetta, quella che aveva comprato con il suo Giorgio e che mai aveva voluto cambiare, nonostante la ricchezza raggiunta, perché in quelle stanze c’erano tutti i ricordi e Irma non voleva farne a meno.
Tanti anni dopo, in una fresca mattina d’estate, bussò alla porta sua nipote Melanie, l’ultima figlia di Adele.
«Nonna, insegnami a cucinare».
Irma aveva, allora, tirato fuori da un cassetto il ricettario che negli anni aveva compilato, lo aveva messo sul tavolo, poi aveva dato una veloce controllata alla dispensa per vedere di cosa disponeva e alla fine aveva detto:
«Sugo di Piscirovi. Cominciamo da una cosa semplice, figghia mia».
Avevano cucinato, sporcato, impastato, fritto e riso a crepapelle.
Irma, con il suo inglese un po’ americano, un po’ italiano e un po’ dialetto, guidava Melanie, che imparava, sbagliava e imparava ancora. Un appuntamento fisso: ogni sabato mattina, una ricetta diversa. Settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno. Senza neanche accorgersene Irma stava trasferendo alla nipote una parte di sé che lei, Melanie, avrebbe custodito per tutta la vita…
La parmigiana di melanzane è nel forno, il timer conta alla rovescia il tempo che manca. Il profumo si espande per casa, mentre fuori ha ripreso a piovere e il vento fa ondeggiare su e giù i rami del vecchio ulivo che nonno Giorgio piantò nel giardino sul retro quando nacque mia madre.
«Mel, nica mia, sai per caso dov’è il telecomando?».
Nonna Irma è seduta sul divano e si guarda intorno.
«Te lo porto subito».
Mi siedo accanto a lei, che sintonizza la tv su un talk show alzando il volume quasi al massimo. Ha 83 anni e non ci sente più molto bene. Un tuono in lontananza mi fa sussultare. Mi avvicino ancora di più alla nonna e, cingendola con un braccio, l’attiro a me. Odora di talco. Il tempo che passo con lei è quanto di più prezioso io abbia, dacché certamente più breve di quanto vorrei. In tutti questi sabati insieme, nonna mi ha dato molto di più di una semplice ricetta: mi ha dato il suo passato, le sue tradizioni, la sua forza e la sua splendida storia di riscatto, di amore e successo, raccontata tra un ingrediente e l’altro. Ricordi che custodirò gelosamente e che un giorno passerò a chi verrà dopo di me, perché la memoria di chi siamo stati, di chi ci ha preceduto, non vada mai perduta.
Restiamo abbracciate davanti la tv per qualche minuto, poi il timer suona a ricordarmi che è ora di sfornare. Tiro fuori la parmigiana dal forno e la dispongo sul tavolo della cucina. Apparecchio per due e mangiamo chiacchierando di tutto e di niente. Nonna prende una forchettata di parmigiana e l’assapora lentamente.
«Stai superando il maestro. Mi sa che adesso posso anche andare…», mi dice orgogliosa.
Le sorrido. «Tu non te ne andrai mai davvero, nonna…».
Fuori la pioggia ha smesso di cadere e un leggero venticello alza in aria le foglie secche in una danza ribelle, scricchiolante. Una delicata rugiada si deposita sulle foglie dell’ulivo che, in minuscole gocce d’acqua, cade giù lenta, bagnando e profumando la terra. ●
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