Storia di Enrica F. raccolta da Rosella Simone
Stavo per compiere cinquant’anni e avevo preso la decisione, dolorosa ma necessaria, di interrompere la relazione, che ormai durava da quasi tre anni, con un ragazzo così più giovane di me da poter essere abbondantemente mio figlio. Lui ne aveva appena compiuti ventidue ed era ora di dirsi addio, ne facevo una questione di stile. Un mese prima gli avevo detto: «Il nostro rapporto deve cambiare, ti desidero troppo ma il nostro tempo scade qui». La calma con cui avevo parlato era solo superficiale, il mio stomaco bruciava come se avessi mangiato una caponata con troppo aceto, il cuore galoppava per i fatti suoi mentre lo guardavo negli occhi, maledettamente verdi, e pensavo che appena lui se ne sarebbe andato sarei schiattata lì, sul parquet di casa mia. Lui mi aveva guardato con aria interrogativa. Non capiva: anche se non era più affascinato da me come i primi tempi che stavamo insieme, non aveva ancora voglia di un addio. Ci eravamo conosciuti a una festa su una terrazza romana. Una giovane amica partiva per un lungo viaggio e aveva organizzato un ricevimento di addio invitando tutte le generazioni dei suoi amici. C’era anche lui, lungo, bello e solitario che, chissà perché, da subito, mi aveva fatto una corte divertente e irresistibile. Sembrava più grande della sua età, e poi quella sera, forse avevo bevuto un po’ troppo, ero euforica, ballavo come una invasata e non avevo pensato a niente se non ai suoi occhi verdi. Era iniziata così, diciamo come “per una svista”.
Quando mi aveva detto la sua età mi era venuto un colpo, avevo anche cercato di resistere per qualche settimana ma ero ormai preda di una passione travolgente ed ero ricaduta tra le sue braccia. Succede ai ragazzi di innamorarsi di donne che hanno l’età delle loro madri e per un paio di anni era stata una passione a due, poi, credo, si era abituato a me, un po’ amante, un po’ madre, un po’ consolatrice. Ma non sono diventata vecchia per nulla, sapevo fin troppo bene che o lo lasciavo per tempo o non avrei potuto evitare un abbandono brusco e umiliante appena si fosse preso una sbandata per qualche coetanea e fosse iniziato il confronto tra il mio corpo ben tenuto ma in via di decadenza e l’irruenza, la bellezza di una fanciulla dalle carni sode. Era tempo che io mi dedicassi alle mie amiche e lui alla ricerca dell’amore della sua vita. E invece era successo qualcosa che mi aveva fortemente indispettito. Quel giorno avevamo in programma di incontrarci, non a casa mia naturalmente, per provare a vedere se era possibile continuare ancora un rapporto che facesse a meno del sesso. Me lo aveva chiesto lui e io ero corsa come una impavida eroina al massacro. Come diceva sempre mia nonna “guardare e non toccare è una cosa da imparare”. Be’ questo lo sapevo, non sapevo però che ci voleva un autocontrollo da Gestapo. L’appuntamento era al bar, ed era incominciato subito male. Avevo ordinato uno spritz e il cameriere mi aveva chiesto: «Suo figlio cosa beve?». Avevo deglutito amaro ma lo schiaffone metaforico mi rinsaldava nei miei già vacillanti propositi. «Quando torna dalla toilette glielo dirà lui», gli avevo risposto. Non mi volevo abbassare a precisare che non era mio figlio. Era tornato e aveva ordinato anche lui uno spritz, del resto era l’ora dell’aperitivo. Ce l’avevo davanti, come Pentesilea e Achille. In quel mese di assenza il desiderio di lui mi aveva perseguitato. E adesso era lì, con la sua bella pelle liscia da ventenne, i capelli scompigliati, lo sguardo obliquo. Avevo notato che era leggermente ingrassato. Me ne ero compiaciuta, “Anche lui ha sofferto”, avevo pensato comprensiva, “ha compensato la mia mancanza mangiando!”. Ci eravamo raccontati quello che avevamo fatto in quel mese lontani. Io non avevo nascosto i miei tormenti ma li avevo riferiti con una certa ironia, almeno speravo. Lui mi aveva preso un po’ in giro cercando di farmi dire che avevo un altro innamorato. Non era così disperato come avrei voluto credere e come in fondo speravo, ma qualche sguardo seducente me lo lanciava, qualche frecciatina, qualche richiamo. Ero in allarme, perché stavo per capitolare ingloriosamente e sapevo che sarebbe stato un fatale errore, quando era entrata nel bar una mia carissima amica. “Sono salva”, avevo pensato, e l’avevo chiamata sorridente e lei sorridente si era avvicinata. Le avevo presentato il mio giovane amico e immediatamente avevo capito di aver commesso un errore imperdonabile, perché la mia cosiddetta amica era immediatamente sprofondata negli occhi verdi del mio interlocutore e aveva iniziato a fare una sceneggiata che mi gelava sulla sedia. Mai vista una cosa simile! Non che non la capissi, lui è di una bellezza insopportabile, è difficile non cascare come una pera. Non si può dire che sia un intellettuale ma ha quell’aria tra il cucciolo e lo sfrontato che alle donne della nostra generazione fa salire la pressione a mille. La capivo ma non accettavo. “Ma non lo vede che è con me? Un po’ di rispetto accidenti” dicevo tra me e me. Neanche a pensarci, la “ragazza” era partita in quarta, lo guardava con la bava alla bocca e ogni tanto si girava verso di me, ma era come se non esistessi, non mi vedeva; era attratta come una calamita dagli occhi verdi. “E io tra di voi…, ci manca solo la canzone di Aznavour e poi sono finita”, rimuginavo nervosamente cercando di inventarmi qualcosa per cavarmi da quell’imbarazzante situazione. Ma ero come inebetita. Lei aveva iniziato a offrire aperitivi a lui, a sé e, ovvio, anche a me e continuava a strusciarsi sul tavolo come se il tavolo fosse lui. E lui? Be’, era divertito, si vedeva, e a me saliva la rabbia. “Adesso la mando a quel paese” pensavo decisa, ma non potevo, una parte di me voleva vedere sino a che punto saremmo arrivati. Doveva essere un attacco di masochismo, oppure stavo facendo una terapia drastica per uscire da quel pazzo innamoramento. Quello che più di tutto mi faceva saltare i nervi era che quella lì non mi teneva in nessun conto. Non sapevo se fosse peggio che la “mia amica” non avesse neanche lontanamente supposto che io potessi permettermi un innamorato così giovane e così bello, oppure che quando andava all’attacco mirasse la preda senza fare nessuna attenzione agli ostacoli. Non sapevo decidermi quale delle due cose mi mandava più in bestia. Mentre naufragavo in queste riflessioni non mi ero accorta che la suddetta aveva concordato con lui un invito a cena a casa sua, seduta stante. Lei abitava sopra il bar. «Che ci vuole, una pasta e via!», aveva gorgheggiato. «Ho anche un ottimo vino», aveva aggiunto la sfacciata e mi ero ritrovata trascinata come un pacco postale su per le scale sino all’appartamento con terrazzino che si affaccia sui tetti di cotto di Trastevere. Avrei dovuto buttarla giù dal balcone e non pensarci più, sarebbe stato meglio, e invece mi ero seduta e avevo assistito a uno spettacolo che spaziava tra l’imbarazzante e l’autofustigazione. Come eravamo entrati in casa lei era corsa in camera sua ed era riapparsa volteggiando in un pareo traforato che mostrava un bel po’ di roba. “Avrebbe fatto meglio a restare più vestita, è una bella donna e ha anche quattro anni meno di me, ma gli anni ci sono e si vedono”, avevo pensato soddisfatta. «Avevo caldo, scusate», aveva mormorato con una voce nuova, tra l’affettato e l’infantile e poi sfarfallando verso l’impianto stereo aveva messo un cd dal suono languido, di quelli che fanno “atmosfera” e, non potevo credere ai miei occhi, si era messa a ballare continuando a sfiorare le gambe del mio ex giovane amante trasformato nello spettatore stupito ma, purtroppo, divertito da uno spettacolo dedicato solo a lui. Io non esistevo, ero una sorta di ombrello messo a scolare su una sedia dopo la pioggia. «Scusa, e la pasta?», avevo detto tanto per ricordare che esistevo e interrompere quella rappresentazione di burlesque casalingo. Lei non si era scomposta e, sempre volteggiando a ritmo, si era avviata verso la cucina con un grazioso «Ci metto un attimo» ed era sparita. Lo avevo scrutato con aria interrogativa, lui mi aveva guardato sorridente e ammiccando con le spalle, aveva alzato le mani aperte come per dire “Che ci posso fare?”, mentre mi fulminava con un velenoso: «Simpatica la tua amica». Avrei potuto uccidere anche lui, forse era l’unico modo certo per togliermelo dalla testa. Avrei potuto anche andarmene ma dovevo bere sino in fondo il mio amaro calice. Così mi ero alzata ed ero andata a prendere piatti, bicchieri, posate, tovaglioli per allestire quella graziosa cenetta al veleno. Poi aveva fatto la sua entrée la “mia amica” con un piattone fumante di penne all’arrabbiata. Le aveva fatte per me? Non lo so, temo proprio che non mi avesse considerata come concorrente. È strano però perché è difficile che una donna non si accorga quando l’altra è perdutamente cotta, e io lo ero anche se in fase di smobilitazione. Comunque sia, mi era passata sopra come un carrista che non vede il gattino cieco che sta mettendo sotto le ruote. Non mi aveva nemmeno messo in conto. Ed è proprio questo che mi aveva fatto inferocire. Lei si riteneva in grado di sedurre il giovane paggio e aveva pensato che io lo adorassi ma senza aver mai apprezzato le sue grazie. Due volte ladra! Finalmente anche quella cena finiva ed ero riuscita a uscire da quella situazione incresciosa con lui a rimorchio. Non sapevo se fosse ritornato quella sera stessa nel letto della “mia amica”, o se fosse stato qualche giorno dopo. Ero certa che fosse successo ma non avevo chiesto. Non era più affar mio. La cura era stata adeguata al male, brutale ed efficace, e mi aveva confermato dolorosamente della necessità di non revocare l’addio. Lei è ormai catalogata tra le ex amiche. Non sono la tipica gelosa folle, ma un affronto così è classificabile solo come “offesa grave”. E tale è rimasta nel tempo, anche se da allora sono passati più di tre anni.
Testo pubblicato su Confidenze 37/2015
Foto: Getty Images
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