Vi riproponiamo nel blog la storia vera più apprezzata del n. 19
Sono a New York per lavoro quando scopro di essere incinta. Scrivo a Marco, la mia reazione è immediata: non posso tenerlo. Poi, mi sorprendo ad accarezzarmi la pancia, e qualche domanda devo farmela
STORIA VERA DI SUSY G. RACCOLTA DA MAURIZIO RIBOLDI
Il test è positivo: sono incinta». Ricordo quel mattino di novembre e la mia voce rotta dal pianto mentre, al telefono, davo la notizia a Marco, il mio compagno.
Dopo molti giorni di ritardo io, sempre regolarissima, avevo deciso di sottopormi al test di gravidanza, sicura che sarebbe risultato negativo. Non so da cosa derivasse questa sicurezza, forse dalla convinzione che la maternità fosse un’esperienza riservata alle altre, una meta irraggiungibile per me. Comunque, qualcosa che io non desideravo più, o credevo di non desiderare o di non potermi permettere.
Vivo a Roma ma dipendo da una società di public relations che organizza eventi in tutto il mondo e ha sede a Londra.Vado avanti e indietro tra queste due città ma, soprattutto, mi sposto moltissimo per lavoro: salgo e scendo dagli aerei, toccata e fuga in hotel dove non ho il tempo di lasciare impronte. A volte, mentre mi addormento distrutta la sera in un letto che è sempre diverso, penso con nostalgia alla mia bella casa di Roma, dove torno ogni tanto soltanto per disfare una valigia e prepararne un’altra per il giorno dopo.
Quel freddo mattino di novembre ero a New York mentre, in preda all’angoscia e con le mani che tremavano per l’agitazione, informavo Marco dell’esito del test.
«Sono disperata» gli dicevo, «disperata, ma ti rendi conto? Con la vita che faccio!».
«Stai calma» insisteva lui, «stai calma, quando torni ne parliamo insieme, vediamo…».
«No, guarda, non ne parliamo proprio. Non posso tenerlo» quasi urlavo, al telefono. «Quante volte ne abbiamo già discusso?».
Lui aveva insistito: «Aspetta, non prendere decisioni affrettate».
I primi giorni della mia permanenza a New York erano stati terribili, a tutto ero preparata meno che alla possibilità di essere incinta. Cercavo di concentrarmi nel lavoro che, fortunatamente, mi costringeva a stare tutta la giornata in mezzo agli altri ma di notte, sola, il pensiero ritornava ed era un incubo. Mi addormentavo al mattino, esausta ma convinta di voler prendere la terribile decisione di interrompere la gravidanza.
Ho studiato lingue all’università, il mio sogno era viaggiare, lavorare in contesti dinamici, scalare posizioni e arrivare ai vertici di una carriera. Per tanti anni ho dedicato tutto il mio tempo e le mie energie al raggiungimento di questo scopo, e ci sono riuscita: ero molto appagata da una scelta totalizzante che non lasciava spazio a nient’altro.
A volte, nei miei rari momenti di pausa, mi ritrovavo a pensare se, per questo, non stessi pagando un prezzo troppo alto, privandomi di tutto ciò che il mio essere donna avrebbe potuto offrirmi, soprattutto la gioia della maternità, e mi chiedevo cos’avrei provato io, cullando il mio bambino tra le braccia. Capitava anche, camminando per strada, che mi intenerissi incontrando una mamma che teneva per mano il suo bambino, e allora sentivo che avrei voluto stringerla io quella manina… Ma erano attimi, solo attimi, subito dispersi nel mio caotico tran tran. Così, ciò che mi teneva sveglia, in quelle prime notti a New York dopo il test, era soprattutto il terrore che questo potesse interferire negativamente con il mio lavoro, con la vita che, in fondo, mi ero scelta e in nessun modo avrei mai voluto ribaltare. In più, fino ad allora, un altro pensiero mi aveva bloccata ogni volta che, per un attimo, mi ero lasciata andare al sogno della maternità: come potrei occuparmi di mio figlio, con la vita che faccio? Chi baderebbe a lui, durante le mie assenze? Con che pena nel cuore partirei, ogni volta, davanti al suo pianto?
Per trovare una risposta, pensavo alla mia famiglia: ho un fratello gemello e una sorella più giovane, mio padre è un giudice e lavora in un’altra città, esce al mattino presto e torna la sera tardi. Anche mia madre, dirigente d’azienda, è molto impegnata. Eppure noi tre siamo cresciuti senza problemi in un contesto sereno. In casa con noi però da sempre c’era Teresa, non una vera tata, ma una specie di altra nonna affettuosa che aveva cresciuto anche nostra madre e che noi adoravamo. Eravamo felici di stare con lei durante l’assenza dei nostri genitori. Ma Teresa non c’è più. Ci raccontava di quando era piccola e viveva in campagna, e nelle famiglie dei contadini c’erano tanti bambini, ma non era un problema perché, mentre i genitori lavoravano nei campi, loro giocavano liberi nelle aie delle cascine, e le porte erano aperte. Ora le porte delle nostre case sono chiuse…
Non so cosa sia accaduto, quella notte, a New York. Rientrata stanca dopo l’ennesima cena di lavoro e buttati i vestiti su una poltrona, mi sono stesa sul letto con una lieve sensazione di nausea; la avvertivo, in realtà, già da un po’, attribuendola all’alimentazione disordinata di quei giorni. Stavolta, invece, mi aveva improvvisamente ricordato che ero in gravidanza, quella poteva essere la causa. Un flash: Susy, sei incinta! Ho sentito la fronte imperlarsi e il cuore accelerare: sei incinta!
Per la prima volta, quello che, per me, era stato sempre un concetto astratto, un’idea, una parola, ora diventava la realtà con cui avrei dovuto confrontarmi. Mi sono chiesta se mai, davvero, l’avessi considerata una possibilità. Se mai mi fossi fermata a riflettere su ciò che significa essere madre e crescere un figlio. Oppure, se ogni volta che questo pensiero si era affacciato, io non l’avessi subito allontanato accampando la paura che mi ostacolasse nel lavoro o di essere troppo poco presente per mio figlio. Ma era davvero questo che temevo? Mi sono accorta che, pensando, mi stavo involontariamente accarezzando la pancia.
Essere madre. Far nascere un figlio, crescerlo, accudirlo, insegnargli a muovere i primi passi nel mondo e anche quelli che verranno dopo, essergli accanto nei suoi momenti di difficoltà, sostenerlo, essere per lui una guida e dargli valori profondi: un compito impegnativo per il quale mi sentivo inadeguata, non all’altezza. Ecco la mia vera paura, tutto il resto erano alibi. Ho spento la luce frastornata, poi la telefonata di Marco. «Non prendiamo decisioni affrettate» ha detto ancora, «ti prego».
“Non prendiamo”. Ho sorriso, su questo plurale, e ho chiuso gli occhi più tranquilla: siamo in due, non sono sola…
Gli ultimi giorni a New York sono stati i più difficili. Fino ad allora la mia decisione di abortire, se pur causa di un terribile conflitto dentro che mi esponeva a continui scoppi di pianto, non era stata in discussione. Ma in quelle ultime sere, coricata, mi sorprendevo ad accarezzarmi la pancia, come se la mia mano volesse andarci da sola. Provavo a spostarla ma ci tornava. Chi stavo accarezzando? Da chi, sempre meno
convinta, stavo scappando? E immaginavo ciò che avevo visto nelle foto di ecografie di tante amiche: con le lacrime agli occhi, mi mostravano il miracolo che, dentro di loro, stava assumendo contorni sempre più definiti. Erano i primi, incerti passi di una nuova vita che sbocciava. Così, ogni mia precedente certezza vacillava e, istintivamente afferravo il telefono: «Marco, ma se, invece…».
«Ne sarei felice».
L’ultima sera, prima di addormentarmi, ho allungato ancora la mano sulla pancia, e la mia carezza era un messaggio per qualcuno che ancora non conoscevo e già non vedevo l’ora di incontrare: dormi tranquillo, non hai più nulla da temere. Poi due parole alla valigia come a una vecchia compagna di infiniti viaggi: ora potrai riposarti un po’.
Quanti mesi sono trascorsi? Questa mattina, Marco ha appeso un fiocco azzurro sulla porta di casa nostra. ●
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