La storia vera di Andrea Pianezzi pubblicata sul numero 29 di Confidenze è la più votata dalle lettrici. Ve la riproponiamo nel blog
Storia vera di Claudia F. raccolta da Andrea Pianezzi
Quando il dottore suonò alla porta gli aprii subito. Lo aspettavo trepidante.
Avevo bisogno di parlare con lui, sapevo che mi avrebbe ascoltata. Il 23 dicembre avevo trasportato mia madre al pronto soccorso nell’ennesimo tentativo di salvarla. «Non possiamo fare nulla» mi aveva detto il medico di turno e, tristemente, aveva aggiunto:
«Comunque non sta soffrendo, stia tranquilla».
Decise di dimetterla. Non si trovavano ambulanze disponibili a riportarla a casa, neanche a pagarle a peso d’oro.
Mancavano due giorni a Natale. Avevo già effettuato diverse chiamate a vuoto ed ero rassegnata a stare lì tutta la notte, senza dormire e senza poter mangiare nulla, accanto alla lettiga su cui era stata adagiata, quando mi venne istintivamente l’idea di richiamare un servizio privato che avevo già interpellato inutilmente mezz’ora prima. Mi risposero subito e mi dissero che, incredibilmente, stavano arrivando al pronto soccorso proprio in quel preciso istante con una culla termica. Mi parve un dono del cielo.
Caricata sull’ambulanza, mia madre piangeva in silenzio. Come se avesse compreso, in un improvviso momento di lucidità, che era stata rifiutata. I tremori, che da una settimana la scuotevano, si erano intensificati. Non mangiava più, né riusciva a parlare. La sua mente non era lucida da tempo. Aveva iniziato a dirmi addio.
Due mesi prima, mamma era stata operata d’urgenza per un’ernia strozzata; avevo firmato la carta per l’intervento, non sapendo se si sarebbe salvata. Di fatto, le premure dei medici la liberarono da una morte imminente, ma d’improvviso la situazione era precipitata e non c’era più nulla da fare.
In quei giorni, mi ripetevo sempre le stesse domande: avrei potuto fare di più? Forse non ero stata abbastanza attenta e scrupolosa? Perché, a tratti, quando la vedevo stare malissimo, mi sembrava di desiderarne addirittura la morte?
Il giorno dopo, la vigilia di Natale, suo fratello venne a trovarla. La trovò pallida, rigida, emaciata, non più in grado di proferire parola. Sono convinta l’abbia riconosciuto perché quando lo vide emise qualche suono incomprensibile. Lui si era allontanato da lei da alcuni anni. Non la cercava nemmeno per telefono, era sempre lei a chiamarlo.
L’avevo fatta seguire da uno specialista privato disponibile alle visite domiciliari per tutta la durata della malattia. Avevamo già fissato un appuntamento per due giorni dopo Natale. Ma mi aveva detto che avrei potuto chiamarlo in qualunque momento, anche il 25, se le cose fossero peggiorate. Non volevo disturbarlo in un giorno di festa. Ma proprio in quelle ore…. Avevo bisogno di confrontarmi con qualcuno per non sprofondare nel dolore. Così, mi ero fatta coraggio e avevo formato il numero sulla tastiera del telefono.
Ed eccolo lì, di fronte a me, pronto a visitarla. Lo feci accomodare, presi tempo… Non riuscivo neanche a pronunciare quella frase… Dopo aver scambiato qualche parola di circostanza, si alzò per dirigersi in camera di mia madre e allora gli diedi la notizia.
«È morta, un’ora fa» dissi soltanto.
Si sedette di nuovo sulla poltrona del salotto. Mi prese le mani. Mi diede coraggio anche solo con quel contatto e io sentii di avere la forza di parlare.
Gli raccontai della solitudine di mia madre. E di quanto soli ci si possa sentire anche in mezzo alla gente. Gli dissi che, a tratti, mi ero trovata a desiderare che entro Natale finisse tutto, perché mi sentivo mortalmente stanca, sfinita.
Non mi giudicò. Mi sentii compresa e perdonata per quel pensiero che mi faceva orrore, per il desiderio che la situazione si risolvesse nel più breve tempo possibile perché la stanchezza fisica mi opprimeva e io dovevo trovare la forza di andare avanti. Avevo un lavoro: non volevo e non potevo chiedere permessi straordinari o giorni d’aspettativa.
Quando se ne andò, dopo avermi stretta forte la mano per un saluto e per un ultimo incoraggiamento, aprii la finestra per cambiare aria e una farfalla arancione, una grossa falena notturna sopravvissuta al gelo, entrò e si posò sulla mia mano.
Era splendida: le ali dai riflessi dorati si aprivano alla luce del lampadario del soggiorno, quasi per catturare un po’ di calore, un lieve alito di vita. Scossi un poco la mano e lei volò via, uscendo da quella stessa finestra da cui era entrata.
Sono una studiosa del mondo delle religioni, so che la farfalla è un simbolo bellissimo, che ci connette al mistero della rinascita. Ma non ricordavo il legame con il mondo dei defunti che accompagna quest’insetto così elegante da tempi remoti. Qualche giorno dopo aver seppellito mia madre, ero al supermercato quando il mio sguardo cadde per caso su una rivista. La sfogliai soffermandomi sulle pagine dedicate alla posta dei lettori. Lì trovai una lettera che mi fece fare una bella scoperta, che mi diede grande conforto: anche una piccola, apparentemente insignificante farfalla poteva portare un messaggio. L’autrice di quel testo era una ragazza che, come me, aveva perso la madre da poco; il titolo dato alla lettera non lasciava spazio a dubbi: “Non ci sei più, mamma, ma sei tu a mandarmi quelle farfalle”.
Sembra incredibile, ma è stato davvero così, o almeno a me piace pensarlo: negli anni che seguirono la morte di mia madre mi trovai anch’io, e più di una volta, circondata da farfalle nei momenti e nei luoghi più impensati. Accadde, per esempio, dentro a quello stesso supermercato dove avevo comprato la rivista, il 23 dicembre di un anno dopo: una farfalla sembrò seguirmi fra gli scaffali.
Non sono una persona che cerca continuamente riscontri di una qualche esistenza soprannaturale. Forse nemmeno li voglio. Ma non posso non notare queste piccole, poetiche, coincidenze. Mi fanno pensare che questo mondo, apparentemente arido e inospitale, che sembra privo di amore e di sincerità, nasconda un senso del bene profondo, qualcosa che solo a stento e con fatica possiamo scorgere nella quotidianità, non solo la nostra, ma anche quella che ritroviamo nelle notizie, spesso terribili, lette ogni giorno sui giornali.
Rividi quel medico che era stato così affettuoso con me in quel terribile momento. Lo incontrai per caso, due anni dopo, in una libreria del centro. Era settembre e faceva ancora caldo. Scambiai con lui poche, affrettate parole di saluto. Fu gentile, cordiale, proprio come lo ricordavo. Dopo esserci congedati l’uno dall’altro, allontanatami di pochi passi, mi fermai e mi voltai a guardarlo. Sulla sua spalla, una grossa farfalla arancione batteva le ali delicatamente, come in un sussurro. Lui non se ne accorse, distratto dal libro che stava sfogliando. Appoggiato il volume, si avviò verso l’uscita, con la farfalla dorata ancora posata sulla giacca. Le ali, leggerissime, battevano a un ritmo regolare: sembravano assecondare i suoi passi, quasi un segno di riconoscimento per quell’uomo così gentile.
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