“Un’avventura” di Roberta Giudetti, pubblicata sul n. 18 di Confidenze, è la storia più votata questa settimana sulla pagina Facebook. Ve la riproponiamo sul blog
«Ti piace Battisti? Questo pezzo mi fa pensare a te» mi aveva detto e io mi ero lasciata fuorviare dal titolo di una canzone che non conoscevo, credendo di essere una delle tante. Eravamo due ragazzi, forse avrei dovuto avere più coraggio o forse non ero pronta per un amore così. Ma dentro di me ho continuato ad aspettarlo.
Storia vera di Mariangela C. Raccolta da Roberta Giudetti
Non perché è mia figlia, ma non ho mai visto sposa più bella e radiosa. Quello che si nota all’istante, oltre alla figura elegante disegnata dal candore dell’abito, sono gli occhi pieni di stelle. Era tutto quello che desideravo per lei: un matrimonio baciato dall’amore. Amore vero. Non è così scontato anche se penso che oggi le donne siano più libere e consapevoli dei propri desideri e sentimenti. Per me, molti anni fa, non è stato così. Lo so che sembrerà ridicolo, ma io mi sono innamorata davvero di un solo uomo nella mia vita, e non è quello che ho sposato. Ho aspettato a lungo che tornasse da me, pietrificata nel ricordo e nel rimpianto. Avrei dovuto cercarlo, lottare per quel giovane e irruente amore, ma non ci ho creduto abbastanza. E lui, meno di me. Eppure le emozioni che ho provato da ragazza quando ero insieme a Carlo, non le ho vissute mai più.
Non credo di essere né la prima né l’ultima donna che si è sposata senza essere innamorata. In tanti anni, comunque, non ho mai tradito mio marito. Volevo e voglio un bene dell’anima a Mario, ma so che l’amore è un’altra cosa. Sarà perché crescendo i sogni cambiano e le priorità diventano altre. Ma ancora oggi, a quasi settant’anni, mi domando come sarebbe stato se avessi avuto il coraggio di vivere quell’amore. Questo significa che qualcosa mi è mancato.
Mi sono sposata tardi e mia figlia è nata che ormai non ci speravamo più e già per questo mi ritengo molto fortunata. Ma quando osservo la mia bella casa e il sole che fa capolino dalle serrande, mi guardo dentro e so che mi è sempre mancato qualcosa per essere davvero felice. Allora cerco di immaginare come sarebbe stato diverso se quel giorno di oltre cinquant’anni fa non fossi scappata via. Se non avessi avuto così fretta di giungere alle conclusioni. Se avessi avuto il coraggio di amare.
Era la primavera del 1969, avevo diciott’anni, frequentavo il quarto anno al Liceo Scientifico “Da Vinci” e i ragazzi avevano iniziato ad accorgersi di me. Ero alta, snella, con lunghi capelli rossi e occhi verdi. Sapevo di piacere, ma il mio cuore strabatteva solo per lui: Carlo, quinta D. Un sorriso che ti faceva mancare il respiro, lunghi ricci folti e neri, occhi furbi. Bellissimo e fin troppo accessibile. Carlo non se ne faceva scappare una. Gli amici lo chiamavano “Che” (alludendo a Che Guevara, il leader della rivoluzione cubana) per le sue idee politiche. Una mattina, durante un’assemblea a scuola, lo avevo sentito parlare di uguaglianza e libertà e mi era sembrato forte, bello e sicuro di sé. Era di sinistra e questo sarebbe bastato a sbarrargli la porta di casa mia. Se mio padre avesse saputo che mi ero presa una cotta per uno così, a suo avviso “senza regole”, mi avrebbe chiusa in casa. Ma non c’era pericolo perché Carlo sembrava non accorgersi di me. Gli piacevano libere come lui. Libere e attiviste. Ogni volta che ci incontravamo nei corridoi della scuola o per le scale, iniziavo a balbettare e non trovavo mai una frase intelligente per fermarlo e cominciare a parlare. Per attirare l’attenzione mi appostavo fuori dalla sua classe. Sola, con un libro in mano, a volte con la mia amica Anna. Chiedevo di uscire alcuni minuti prima che suonasse la campanella dell’intervallo e correvo di corsa al secondo piano. Appoggiata al calorifero mi davo un tono leggendo l’Antologia di Spoon River. Non volevo di certo diventare una tacca sulla sua cintura, piuttosto che si innamorasse di me. Se ci fossimo conosciuti e frequentati, lui avrebbe smesso di andare con tutte le altre perché con me sarebbe stato amore vero. Finché un giorno accadde. Mentre leggevo, appollaiata sui gradini, era arrivato alle mie spalle e sussurrandomi in un orecchio aveva citato a memoria La collina, una poesia tratta dall’antologia: «Dove sono Ella, Kate, Mag, Edith e Lizzie,/ la tenera, la semplice, la vociona, l’orgogliosa, la felice?/ Tutte, tutte, dormono sulla collina».
Un colpo al cuore e uno all’anima. Avevo riconosciuto la sua voce sin dalle prime battute. Non osavo voltarmi e guardarlo in faccia perché percepivo le mie guance incandescenti. Poi Carlo si è seduto accanto accanto a me e mi ha preso il libro dalle mani, con gentilezza. «Qual è la tua preferita?» ha chiesto in un soffio e io, come una scema, ho risposto: «Tutte». Lui ha abbozzato un sorriso. Mi ha fissata per un istante e io ho sentito chiaramente quello che mi stava succedendo: il mio cuore precipitava in un vortice e lo avrei amato da quel preciso momento per sempre. È incredibile come a quell’età ci si innamori perdutamente in un attimo. Il tempo di due parole sussurrate con la voce giusta. Uno sguardo che si posa timidamente. Sembra che nient’altro possa contare. E nessun altro potrà mai più essere chiamato amore. «Sono Carlo e tu?». Stava succedendo veramente. Poi uno dei suoi tanti amici lo ha trascinato via e io sono rimasta lì a sognare. «Mariangela» ho gridato e lui si è girato di scatto e mi ha salutata con la mano. Con il cuore in subbuglio e quel sorriso ebete appiccicato sul viso paonazzo, ho infilato il naso fra le pagine del libro per carpire il profumo delle sue mani. E sono corsa a casa. Felice.
Raramente sono stata felice nella mia vita come in quei giorni. Dopo quella volta, io e Carlo abbiamo iniziato a salutarci. Lui usciva da scuola sempre per mano a una nuova amica. Professava l’amore libero, ma io continuavo a credere che fosse solo una posa e che non facesse sul serio. Mi guardava. Ogni tanto, quando ci incrociavamo sulle scale o nell’atrio, mi guardava e sorrideva. E quando Carlo sorrideva io mi confondevo, perdevo la strada e non capivo più niente. Poi un giorno finalmente ci siamo ritrovati soli, io e lui, fuori da scuola. Lo avevo seguito. Sapevo che spesso andava a prendere dischi in un negozietto vicino a casa sua e mi ero fatta trovare lì. Non era rimasto particolarmente sorpreso. Mi si era avvicinato mentre fingevo di leggere i titoli delle canzoni in un album dei Beatles. Uno dei pomeriggi più belli della mia vita. Rimanemmo insieme per ore a parlare di musica e poesia. E di politica, ovviamente. Per Carlo era impossibile non parlare dei problemi dei lavoratori. Frequentava solo amici che la pensavano come lui e io, lo aveva capito, venivo da una famiglia borghese poco aperta a certi cambiamenti. Ero diversa dalle ragazze che lo aiutavano a scrivere gli striscioni per le manifestazioni con le bombolette spray, che condividevano le sue idee. Io non ce l’avevo un’idea mia. Ancora non sapevo cosa avrei votato qualche anno dopo. Ma rimanevo lì ad ascoltarlo, pronta al confronto. Curiosa e senza preconcetti. Mi piaceva la passione che Carlo metteva nel raccontarmi la storia e la politica dal suo giovane e rivoluzionario punto di vista. Mi piaceva tutto di lui. Ma non ero pronta ad affrontare mio padre.
Il suo bacio sulla mia guancia calda è rimasto lì per giorni senza che io osassi neanche sciacquarmi il viso per non perdere il ricordo di quella sensazione.
Avremmo potuto amarci per sempre noi due se solo non avessi avuto così paura del suo stile di vita. Dei suoi ideali. Delle sue amiche libere e disinibite. Se solo non avessi temuto che mio padre non lo avrebbe mai fatto entrare in casa nostra.
«Lo sai, vero, che se mio padre scopre che esco con te mi butta fuori di casa?».
«Devi imparare a lottare per quello in cui credi, Mary» mi ripeteva.
In quei mesi l’ho aiutato a preparare gli esami di maturità. Carlo non amava studiare, ma leggeva moltissimo ed era così intelligente che apprendeva subito. Era il migliore in italiano, storia e filosofia. Dopo gli esami, abbiamo iniziato a vederci sempre più spesso e sempre di nascosto, visto che i miei non avrebbero accettato che avessi una relazione con un ragazzo così. Anche se avevo scoperto che Carlo non era figlio di proletari, come avevo sempre creduto, bensì di un illustre avvocato. Questo mi faceva sperare che forse, un giorno, mio padre avrebbe acconsentito a conoscerlo. Certo che con quei capelli lunghi e quelle idee non sarebbe stato semplice.
Era agosto e avremmo dovuto salutarci per un po’. Io sarei andata a Taormina con i miei, lui avrebbe fatto un giro in Europa con gli amici. Dopo l’estate sarebbe andato a Roma a studiare, ma ancora non sapeva cosa. Suo padre lo avrebbe voluto avvocato come lui, sua madre medico come il nonno. Lui stava meditando di diventare un insegnante.
Parlavamo un sacco io e Carlo. Lo aveva capito che ero pazza di lui. Ma c’era questa paura che avevo di mio padre che mi bloccava. Che mi faceva tenere le distanze da lui anche quando tutto il mio corpo desiderava cedere. E che mi portava a dubitare di lui. Perché era più facile non fidarmi di Carlo piuttosto che affrontare mio padre che mi adorava. Quel pomeriggio, era l’imbrunire, mi aveva accompagnata per un tratto di strada. Io ero sulle mie, come al solito, temevo di incontrare qualcuno che andasse a spifferare a mio padre che stavo frequentando un capellone. Per la prima volta, Carlo mi aveva presa per mano. Me l’aveva stretta forte e a me era venuto da piangere perché stava per succedere quello che aspettavo da mesi. Ma avevo paura. Per questo sono rimasta rigida anche se dentro stavo scoppiando. Carlo però mi aveva baciata lo stesso. Quel bacio ha fermato il tempo. «Vieni a casa mia domani? Ti faccio sentire dei dischi che mi hanno regalato. I miei… non ci sono».
Sono scappata via, ma non senza prima aver risposto di sì con un cenno del capo. Non ho mai più provato un tale scompiglio dopo un bacio.
Non ho dormito un minuto quella notte. Il giorno seguente ho avuto la nausea tanto ero nervosa. Prima di uscire, mi sono cambiata tre volte, ma nulla di quello che c’era nel mio armadio poteva andare bene. Allora ho preso in prestito una camicia e una gonna da mia sorella maggiore. Non mi sentivo per niente a mio agio, ma non avrei mai rinunciato ad andare a casa di Carlo. I dubbi però continuavano a tormentarmi. Non era così che avevo sognato la mia prima volta. Carlo aveva dato per scontato che tanto non avrei mai rifiutato il suo invito. Si stava comportando con me come con le altre? Immaginavo tutte le ragazze che erano passate dalla sua stanza quando i suoi genitori non erano in casa. Nonostante questi pensieri, ci sono andata lo stesso. Abbiamo fatto la strada in silenzio, mano nella mano. Carlo cantava una canzone che non avevo mai sentito. Quando ha aperto la porta di casa sua, sono rimasta sorpresa dall’ordine e dall’arredamento signorile. Non posso giurarci, ma sembrava teso anche lui. Mi ha tolto la giacca di lino e l’ha appesa all’entrata. Poi mi ha portata in camera sua. Con una mano mi accarezzava il viso, con l’altra cercava di sbottonarmi la camicetta. Ho iniziato a tremare. Si è staccato da me e per sdrammatizzare ha esclamato: «Ti piace Battisti? Questo pezzo è bellissimo… Mi fa pensare a te». Era un ragazzo anche lui, in fondo.
Ho sorriso, imbarazzata. Mentre Carlo cercava di mettere sul giradischi il 45 giri, ho preso la copertina. Nella foto c’era un capellone riccio quanto lui di fronte a un albero. E il titolo: Un’avventura. Mi si è fermato il cuore. Quindi ero questo per Carlo? Certo, cosa avevo sperato? Lo avevo sempre saputo che era tutto uno sbaglio. Non sono stata ad ascoltare nemmeno una nota di quella canzone. Quando Carlo si è girato, ero già scappata via. Ero corsa a casa in lacrime, ma sollevata. Per lo meno non sarei stata una delle tante. Carlo non è venuto a cercarmi, del resto non gli avevo nemmeno mai dato il mio indirizzo. Dopo qualche giorno, quella canzone era passata alla radio. “Non sarà un’avventura, non può essere soltanto una primavera. Tu sei mia…”. Non avevo capito niente. Sono corsa al solito negozio di musica e ho comprato il 45 giri. L’ho consumato a furia di suonarlo prima di avere il coraggio di tornare a casa sua. Carlo però non c’era. Sua madre mi disse che era partito per Roma, che era andato a informarsi per l’università e che da lì sarebbe andato direttamente prima a Milano e poi in giro per l’Europa. Anche lui, in fondo, era scappato. Da me. Che non avevo avuto fiducia in lui. Che non avevo il coraggio di affrontare mio padre. Che avevo preferito credere di essere una delle tante. Un’avventura. Eravamo solo dei ragazzi. Non ero pronta per un amore così, mi disse mia sorella. Nel mio cuore ho continuato ad aspettarlo per anni. Dopo la maturità anch’io ho lasciato la città e sono andata a studiare Fisica a Milano, ospite della zia Bettina.
Quando ho rivisto Carlo, molti anni più tardi, lavoravamo entrambi nella scuola. Lui era sposato e aveva già due bambini. Era tornato a vivere a Reggio, insegnava Italiano al nostro vecchio liceo ed era ancora politicamente e socialmente impegnato. Mi ha riconosciuta subito e mi ha abbracciata con slancio. Sembrava non ricordarsene affatto di quello che non era successo fra noi. Mentre io avevo vissuto tutti quegli anni nel rimpianto, nell’ossessione di aver perduto il solo uomo che mi aveva fatto strabattere il cuore.
Da lì a poco, ho sposato Mario. Avevo già trentacinque anni ed ero stanca di aspettare quell’emozione che avevo conosciuto con Carlo. Con la maturità, forse i colori dell’amore cambiano, i sogni mutano e così i desideri. Forse nel mio cuore si è creato un filtro che non lascia passare certe emozioni e l’ho messo io. Come una patina di polvere su un vetro che non permette di godere del panorama. Si può solo intuire che al di là la vista è splendida. È quella patina che spesso mi ha mostrato il mondo grigio anche quando era blu. Ma oggi no. Oggi sono felice veramente. Mia figlia è innamorata e io non ho mai visto sposa più bella e radiosa, gli occhi pieni di stelle. Era tutto quello che desideravo per lei: un matrimonio baciato dall’amore. Amore vero.
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