Ventitré gradini

Cuore
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Da bambina ero molto attratta dalle persone anziane perché desideravo una nonna. La vicina del piano di sopra mi era stata subito simpatica, con quei capelli viola. Le ho voluto bene, e ancora di più dopo che ho saputo la verità su di lei 

Storia vera di Elisabetta G. raccolta da Roberta Giudetti

 

È strano come certi desideri per cui hai lottato a lungo, una volta raggiunti, diventino quasi scontati. Non puoi dimenticarti, però, di chi ti ha sostenuto davvero in quel percorso. Sono passati molti anni e non posso scordarmi della donna che mi ha permesso di realizzare uno dei miei sogni più grandi, quello di avere una casa e una famiglia. La mia Tita. La signorina Leonice. C’è un posto speciale per lei nel mio cuore.

La prima volta che l’ho incontrata avevo circa sei anni. Ci eravamo trasferiti in un nuovo appartamento, più spazioso, con un ampio terrazzo dove mia madre coltivava le sue amate piante di rose e ortensie. Giocavo molto su quel terrazzo con il nostro cane, sperando di conoscere presto qualche bambino del palazzo. Un giorno, affacciata al balcone del secondo piano, avevo visto questa bella e anziana signora dai capelli viola appoggiata alla ringhiera. Indossava un’elegante vestaglia damascata, mi fissava attraverso i suoi buffi occhiali e sorrideva 

«Quanti bei fiori» aveva esclamato osservando le rose tea della mamma. «Finalmente ci abita qualcuno qui sotto. Sei tu che aiuti la mamma a curare le piante?».

Avevo alzato nuovamente lo sguardo e le avevo sorriso. Aveva un aspetto curioso: mi era piaciuta al primo sguardo.

«Posso salire? Così diventiamo amiche».

Lei era scoppiata a ridere e aveva annuito con il capo. Avevo fatto le scale di corsa, con le mie gambette paffute. Avevo contato a voce alta 23 gradini per esercitarmi con i numeri. Poi avevo atteso, ferma sul pianerottolo, perché non sapevo a quale porta bussare. La signorina Leonice era venuta quasi subito ad aprire. Si era sistemata la vestaglia e i capelli. Ai piedi indossava delle strane ciabattine dorate con il tacco, nulla a che vedere con le pantofole di spugna che metteva mia mamma. 

«Piacere, io sono Elisabetta» avevo detto tendendole la mano. Ero sempre stata una bambina molto socievole, forse anche troppo. Ero soprattutto attratta dalle persone anziane perché desideravo avere un nonno o una nonna. I miei erano mancati molto presto, tutti e quattro, e io non avevo fatto in tempo a conoscerli. Non possedevo alcun ricordo dei miei nonni e invidiavo profondamente tutte le mie compagne di scuola che la domenica pomeriggio potevano andare a trovarli. 

«E tu, come ti chiami?».

«Mi chiamo Leonice ma tutti mi chiamano Nice».

Aveva un nome davvero buffo, un po’ come il suo aspetto. Non so per quale motivo, decisi di chiamarla Tita. “Vado a trovare la Tita” era la frase che i miei genitori mi sentivano ripetere più spesso da quando l’avevo conosciuta. La sua casa era splendida. I metri quadri erano uguali ai nostri, solo che lei ci viveva da sola. Il suo soggiorno era arredato con vasi e quadri d’epoca, divanetti sfarzosi, tende e drappi che conferivano un aspetto austero, ma così elegante. Per lo meno, alla Elisabetta bambina, tutto quell’oro sembrava un segno di classe. Non era affatto vecchia, in verità aveva poco più di 60 anni, ma a me appariva, non so perché, come la nonna ideale. Forse per quei suoi strani capelli grigi, sempre perfettamente cotonati, con quelle sfumature viola. Aveva un seno davvero imponente e gambe magrissime. Le unghie sempre curate, così diverse da quelle di mia mamma che erano rovinate dai mestieri di casa. Non usciva mai senza passarsi il rossetto sulle labbra. Non aveva figli, solo un nipote, figlio del fratello, a cui era molto legata, ma che non passava mai a trovarla. Sosteneva che fosse il suo più grande rimpianto non avere avuto figli dal primo marito che era morto molto giovane, stroncato da un infarto. In gioventù aveva fatto la sartina, ma ora era in pensione. Era molto ricca. Possedeva numerosi appartamenti in città e in montagna. Non sapeva cucinare, ma quando mi invitava a pranzo mi preparava un riso bollito con olio e parmigiano che per me aveva il gusto del migliore piatto di lasagne che avessi mai assaporato. Oppure mi portava al ristorante. 

Amavo profondamente quella donna. Mi piaceva andare in giro con lei, tenerla per mano. A volte l’accompagnavo dalla modista, dove commissionava i suoi busti, oppure dal podologo, dove curava i suoi calli. Le uniche volte che non potevo salire a farle compagnia era quando arrivava il signor Giacomo. Ecco, lui non mi piaceva affatto. Era enorme, con un pancione assurdo. E non toglieva mai quel suo serio cappello. Erano quelli gli unici giorni in cui non passavo a salutare la Tita altrimenti ero sempre con lei.

Col passare degli anni, mi ero davvero affezionata. Era diventata di casa tanto da partecipare spesso a pranzi e eventi di famiglia. 

Mia madre però la sopportava a stento, a volte mi faceva notare che non era davvero mia nonna, che dovevo essere meno invadente, ma io non l’ascoltavo proprio. Volevo bene alla Tita e mi piaceva stare in sua compagnia. Stavo ad ascoltare i suoi allegri racconti di quando era una sartina, ma non riuscivo a capire come fosse riuscita a fare tutti quei soldi. 

A nove anni avevo iniziato a studiare pianoforte, questo mi portava via almeno due ore ogni pomeriggio. Mi spiaceva trascorrere meno tempo con la mia Tita, ma a lei piaceva sedersi in camera sua e ascoltarmi, perché il suono di quelle note incerte che giungevano attraverso le mura, le faceva comunque molta compagnia. Mia madre sembrava sollevata dal fatto che passassi meno tempo con la signorina Leonice e non riuscivo a capire il perché. A 12 anni, avvicinandomi al sacramento della Santa Cresima, chiesi esplicitamente di avere lei come madrina. Tita non stava più nella pelle. Mi aveva portata in giro per il centro a fare shopping, voleva regalarmi un abito da cerimonia che fosse unico. Mia madre non mi era sembrata affatto entusiasta all’idea. 

Quando, durante l’ora di catechismo, ci chiesero di consegnare i nominativi delle madrine o padrini che avevamo designato, io scrissi con orgoglio il suo nome su un foglietto e il suo recapito telefonico. Avrebbe dovuto presentarsi insieme a me per un breve colloquio. Non andammo mai a quell’appuntamento insieme. Tita era pronta, aveva già scelto l’abito e gli accessori per quel giorno, ma mia madre ci fermò. Disse che era arrivata una telefonata dalla parrocchia. Avevano verificato l’età della signorina Leonice e avevano dichiarato che non era adatta a farmi da madrina.

«E perché?» avevo gridato.

«Perché hanno detto che è troppo anziana. La madrina, tesoro mio, deve fare le veci del genitore qualora questi non potesse. Deve soprattutto continuare a seguirti nel tuo percorso di fede e…».

«E cosa?».

«E niente. Non può essere lei. Basta polemiche. Ho già contattato una mia cara amica, lo farà lei. Non abbiamo tempo ora per scegliere».

«Ma io non la voglio una tua amica. Voglio la mia Tita!» avevo cercato di protestare.

Tita però aveva abbassato lo sguardo e aveva annuito. Avrei dovuto intuire allora, da quei suoi occhi tristi e dal suo tono di voce pieno di amarezza che l’età c’entrava ben poco, ma non lo capii. Accettai Fanny, l’amica di mia madre, il suo insopportabile profumo, l’abito di velluto blu che volle regalarmi lei a ogni costo, anche se io avrei preferito indossare quello che mi aveva comprato la mia Tita. Nemmeno le foto riuscirono bene: in ogni scatto apparivo imbronciata e evidentemente molto delusa. 

Fanny non la vidi praticamente più dal giorno della mia Cresima. Tita invece rimase ancora a lungo nella mia vita ma non quanto avrei voluto. Crescendo, coltivando nuovi interessi, avevo iniziato a diradare le mie visite, ma anche lei era sempre meno presente in casa nostra. Finché, nonostante ci separassero solo 23 gradini, non la vidi quasi più. 

Andai a trovarla anni dopo, quando seppi che si era gravemente ammalata. Era ormai allettata da mesi, irriconoscibile. Portai con me il mio fidanzato per presentarglielo. Rimasi lì a tenerle la mano per tutto il tempo chiedendomi come avevo fatto a scordarmi di tutto il bene che le avevo sempre voluto. Mi sentivo una stupida ingrata.

«Che bel ragazzo… Avete intenzione di sposarvi?» aveva domandato con un filo di voce.

«Magari» avevo risposto. «Non abbiamo i soldi per mettere su casa, Tita. Lavoriamo entrambi da troppo poco tempo».

Si era sforzata di sorridere. Le labbra, che raramente avevo visto senza rossetto, si erano come spaccate e avevano lasciato intravedere una bocca malata.

Fu quella l’ultima volta che vidi la mia Tita. Quella visita mi lasciò un buco nel cuore. 

Tornata a casa avevo investito mia madre dicendogliene di tutti i colori, accusandola di essere l’artefice del mio allontanamento dalla signorina Nice. 

«Tu e la tua stupida amica Fanny!» le dissi.

«Ma non lo hai ancora capito? Ormai sei grande! Era stato don Franco a proibirci di presentare la tua Tita come madrina. La conoscevano tutti nel quartiere e anche in parrocchia, con le sue donazioni per salvarsi l’anima. La signorina Leonice non è mai stata una sartina. Non è mai stata sposata. Era una prostituta. Il signor Giacomo non era un amico, era un cliente. Ecco come ha fatto tutti quei soldi!».

Ho guardato mia madre con odio. Poi ho gridato: «E allora? Chi se ne frega! Io le volevo bene».

Davvero quella scoperta non avrebbe cambiato di una virgola il mio affetto per lei, ma sicuramente aveva spinto lei ad allontanarsi da me. Come se avesse temuto che, diventando grande, avessi potuto giudicarla. E avessi potuto smettere di volerle bene. 

La signorina Nice è morta una settimana dopo la mia visita. I suoi beni immobiliari sono stati ereditati da quel nipote che non andava mai a trovarla. 

La maggior parte della sua liquidità però è andata in dono alla parrocchia, quella che non aveva voluto che mi facesse da madrina. 

A me ha lasciato uno splendido orologio d’oro a cui era particolarmente legata, tre brillantini per farne un anello e 20 milioni di lire, un piccolo aiuto per realizzare il mio sogno di mettere su casa, aveva lasciato detto al suo legale.  

Ancora oggi penso a lei come all’unica nonna che io abbia mai avuto.

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