Vicine di cuore

Cuore
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La storia preferita del n. 50 è un racconto di sorellanza e amicizia tra donne

Storia vera di Nathalia raccolta da Barbara Benassi

Ero rimasta sola, delusa e triste, con due bambini, in una grande casa con giardino. All’inizio pensai di non farcela, ma un giorno incrociai lo sguardo di Marina, oltre la siepe, e ci vidi il mio stesso dolore. «Ti andrebbe una tazza di caffè?» mi chiese. «Non sai quanto!»

 

Quando insieme ad Antonio, mio marito, presi possesso dell’appartamento, pensai di aver fatto un grand bel colpo. Ed ero stata proprio io a scovare quella meraviglia.

Durante la prima visita mi ero guardata intorno. Dietro la siepe di lauro ceraso che delimitava il piccolo terreno intorno casa, altri meravigliosi giardini si incastravano l’uno nell’altro. Ero tornata poi altre tre volte consecutive in quella abitazione che si affacciava su una bella macchia di verde prima di parlarne in famiglia. Alla fine mi lanciai. Andammo insieme e anche lui convenne con me che era proprio ciò che faceva per noi. Dopo dieci anni di matrimonio, per la prima volta ci saremmo trasferiti in quella che pensavamo potesse essere la nostra dimora definitiva. Almeno era così che l’avevo percepito. A posteriori, mi chiedo lui se non avesse già la testa altrove, se non fosse stato solo un modo per temporeggiare e darmi il contentino.

Antonio ed io ci eravamo conosciuti a una festa di amici comuni. Lui single da tempo, io infilata in un rapporto soffocante e precario che non mi dava più nessuno stimolo. Nel giro di poco, lui diventò il mio punto di riferimento, il mio sole, il primo uomo in assoluto di cui mi fidavo davvero. Dopo il matrimonio i figli, Luca e Gianni, erano arrivati subito ad allietare le nostre giornate. Agli occhi di molti eravamo una bella coppia, una di quelle destinate a durare a dispetto delle difficoltà, dei problemi, dei brutti momenti. E per molto tempo ci avevo creduto anch’io.

I primi tempi facevamo i piccioncini in un sottotetto romantico del centro, ma dopo l’arrivo dei bimbi ci eravamo trasferiti in un quartiere periferico, economico sì, ma piuttosto scomodo. Poi però nel giro di sei anni, dopo che Antonio era riuscito a farsi promuovere dirigente e io a rimettere in moto l’impresa rilevata dalla mia socia, le nostre entrate erano notevolmente aumentate. A quel punto potevamo ambire a una casa nel verde, più grande e più confortevole.

Così ecco che mi ero ritrovata a posare gli occhi sull’appartamento perfetto con tanto di giardino. Nel giro di poco i nostri bagagli, valigie e scatoloni giacevano stipati in ogni sua stanza. I nostri averi lo riempivano fino a scoppiare, ma a poco a poco ero certa saremmo riusciti a riportare tutto alla normalità. Ricordo ancora il mio primo pensiero mentre alzavo il calice per brindare a quel sogno realizzato: ‘Farò di questo posto la mia oasi di pace’.

Pace? Ero talmente entusiasta da non accorgermi di nulla? No, in realtà, ricordo il ronzio insistente di un pensiero sottile: Antonio era sempre più distratto e la sua mente lontana, immersa in un altro universo. Basti dire che nei momenti liberi non si era mai proposto per darmi una mano a svuotare gli scatoloni per rimettere a posto la nostra vita impacchetta alla rinfusa.

 

Tre settimane dopo il nostro insediamento, quando ancora non avevo finito di riordinare, vidi arrivare un’altra squadra di traslocatori dietro la siepe di lauro ceraso. Qualcuno era venuto ad abitare nella casa vuota di fianco a noi.

Dall’esterno, sembravamo gli stessi, noi e i nostri nuovi vicini: una coppia felice e due bambini. Solo il cane faceva la differenza, un enorme bovaro bernese, piuttosto anziano, che annusava ovunque e che loro chiamavano Thor. Il gigante si aggirava per il giardino, scavava profonde buche e sporcava dappertutto. Io lo guardavo da lontano, ben felice che vi fosse una solida barriera di piante a separarci, visto che per i cani, a un certo punto della mia vita, ho iniziato a nutrire una certa avversione.

Comunque, a parte quella mina vagante, gli ultimi arrivati erano molto più organizzati di noi.

Due giorni dopo, non c’era più nulla, non una valigia, non uno scatolone sotto il patio esterno e tutta l’area davanti casa era stata diserbata e sistemata. Cosa che aveva deluso molto il loro Thor tanto che, attraverso un pertugio, preferiva venire a divertirsi dalla nostra parte, malgrado facessi di tutto per tenerlo alla larga.

– Dimmi se sporca! Nel caso vengo a pulire, – strillava da dietro la siepe Marina, la padrona del vandalo. – Vuoi un aperitivo? – aggiungeva poi ogni volta.

No, non volevo l’aperitivo, come non volevo il suo cane nel mio terreno. E poi le relazioni con il vicinato mi avevano sempre lasciata indifferente. Ognuno a casa propria e niente da spartire. Ma a ogni sconfinamento del bestione maleducato i suoi inviti si moltiplicavano e diventavano sempre più insistenti. Non potevo continuare a rifiutare.

 

Il famoso aperitivo si svolse un tardo pomeriggio di marzo.

Marina era molto curata, con tanto di capelli appena fatti, smalto fresco e vestito in tinta. Camminava come su una nuvola, cortese e sorridente. Suo marito, Roberto, ne era il degno compagno. Elegante, disinvolto e con un’aria volutamente dégagé. Perfino i bambini erano vestiti di tutto punto. Mentre io, con la mia piccola truppa trasandata, mi guardavo intorno meravigliata per l’ordine e la brillantezza che regnava nel salotto immacolato. Mi sentivo inadeguata, anche Thor sembrava disapprovare le nostre scarpe da ginnastica, i capelli in disordine e le tute dei miei figli appena tornati da scuola.

In quell’occasione parlammo a fatica. Antonio dopo aver scambiato due banalità con Roberto si era zittito e anche noi signore una volta esaurito l’argomento bambini, francamente non trovammo granché da dirci.

– Vi aspettiamo. Ci vediamo presto, – promettemmo a quella famiglia perfetta. In realtà non fu così. L’invito non venne mai ricambiato.

 

Dopo nemmeno un mese però, da dietro i lauri cerasi, cominciai a sentire dei litigi. Prima una mattina, al momento di portare i bambini a scuola, poi una sera all’ora di cena, infine sempre più spesso a qualsiasi ora della giornata.

Casa mia invece era il contrario, un silenzio totale, una pianura desolata, Antonio non c’era mai. Tornavo dal lavoro e con i bambini passavamo il resto della giornata da soli e via via anche le serate. Per mio marito c’erano sempre delle riunioni, degli eventi importantissimi, delle scadenze. Fino a che arrivò la rivelazione. Senza appello, devastante.

Antonio annunciò che mi stava lasciando mentre eravamo in cucina a fare colazione, noi due soli. Aveva parlato del più e del meno per tutto il tempo, poi a un certo punto si era zittito come se avesse finito le frasi ordinarie.

– Amo un’altra. Me ne vado, – sparò poi a sangue freddo ferendomi a morte.

Lei, l’altra, era una sua collega che piano piano era diventata molto di più.

 

Così, da un giorno all’altro, rimasi sola con due bambini piccoli, in una grande casa piena di aspettative e scatoloni da svuotare.

Subito dopo l’impatto però credetti di farcela, di non annegare. Invece a poco a poco andai a fondo. Come potevo resistere a quell’urto? Il mio sole, la mia luce si era spenta. Ancora una volta avevo riposto la mia fiducia in qualcuno ed ero stata tradita. Non riuscivo a far fronte a questa situazione e per amore dei miei figli, quando eravamo insieme, tiravo avanti alla meno peggio e mi sforzavo di fingere una serenità di facciata. Il resto del tempo, una volta sola, lo passavo invece prostrata sul divano. Il medico di famiglia, dopo un accurato esame, mi prescrisse un congedo di lavoro per malattia. In quel periodo molti amici si fecero avanti per farmi uscire, ma io li ignoravo. La loro vita non aveva nulla a che fare con la mia. Ero io quella che era rimasta sola, quella tradita. Loro no. Qualunque cosa facessero non potevano alleviare le mie pene.

 

Antonio e io eravamo separati ormai già da sei mesi, senza che le mie condizioni fossero cambiate di un millimetro. Il silenzio della mia casa mi terrorizzava. Così avevo preso l’abitudine di alzare il volume della radio. Ma quella sera non fu sufficiente a soffocare le urla provenienti dalla casa dietro la siepe.

– Non ce la faccio più! – urlava Roberto superando i decibel dell’emittente e l’abbaiare isterico di Thor.

Sentii la porta sbattere, poi più nulla. Capii che se n’era andato.

Il giorno dopo, come ogni mattina, Marina e io ci incontrammo davanti la scuola. Solo che questa volta lei non era impeccabile come sempre. Mi fermai un attimo a guardarla. Gli occhi gonfi, spettinata quanto me e con due pantofole informi che sporgevano dal fondo dei pantaloni da jogging. Pensavo di essere l’unica ad avere il coraggio di uscire in quel modo.

– Ehi Marina, sei in pantofole! Anche mia madre va fuori così delle volte! – aveva esclamato dentro un sorriso deliziato mio figlio piccolo, Luca.

Scoppiai a ridere. Era tanto che non mi capitava.

 

Tra la scuola, Thor da portare a spasso e i palloni che finivano sempre oltre la siepe, i bambini erano diventati molto amici. Per loro, le relazioni umane erano semplici. Almeno questo era quello che mi ripetevo. In realtà, dentro le loro testoline, pensieri carichi di quesiti vorticavano senza controllo.

Un pomeriggio, infatti, colsi Giulio, il figlio piccolo di Marina, impegnato in una profonda conversazione con il mio Luca: – Cosa succede quando i genitori si separano?

Ero curiosa di sentire la risposta divorata da un enorme senso di colpa per non aver saputo proteggere i miei figli come avrei voluto. Mi avvicinai con le orecchie tese. Dietro la siepe incrociai gli occhi di Marina, anche lei nascosta in ascolto. Sembrava destabilizzata quanto me dalla scena che si stava svolgendo davanti ai nostri occhi.

– Non so come spiegare loro quello che è successo. Non so spiegarlo nemmeno a me stessa a dir la verità, – mi sussurrò. – Ti andrebbe una tazza di caffè? –  domandò poi titubante.

– Non sai quanto, – risposi di slancio.

Credo fossi talmente immersa nell’infelicità che l’unica compagnia sopportabile per me poteva essere solo quella di qualcuno che stesse vivendo la mia stessa situazione. In quel pomeriggio di avvicinamento, perfino Thor sembrava guardarmi benevolo e la sua presenza non mi dava più tanto fastidio.

La casa era irriconoscibile rispetto alla prima volta in cui vi avevo messo piede. Trovai un posticino sul divano e assaporai il caffè più buono di sempre dopo tanti mesi di solitudine.

– Una traduttrice di tedesco. Mi ha lasciata per lei. Sai, io ci ho messo tanto a fidarmi di qualcuno e lui per me era tutto, – le confidai tra una sorsata calda e l’altra.

– Noi invece credevamo che questa casa, questo progetto comune, ci avrebbe riuniti. Pensavamo ci restituisse la verve di un tempo. Ma non è stato così, come vedi.

Marina iniziò a parlare di tradimenti, tensioni, insofferenze mentre grosse lacrime le rigavano le guance. Il suo caffè diventava freddo, ma la cosa sembrava non importarle granché.

Chiacchierammo a lungo quel giorno, fino a sera inoltrata. Senza i nostri mariti la conversazione si era rivelata molto più fluida e quando tornai a casa sentii una profonda empatia per quella donna sola come me. Inoltre il suo cambiamento mi aveva sconvolta. Lei, la signora perfetta, aveva lasciato la sua casa nell’abbandono più totale, peggio della mia.

Così il pomeriggio seguente, armata di buona volontà, mi presentai alla sua porta.

– Dai Marina diamoci da fare!

Una spugna in una mano, un detersivo nell’altra, riprendemmo a chiacchierare da dove avevamo interrotto e finimmo per raccontarci la nostra vita. Senza filtri, senza finzioni, mentre Thor ci seguiva paziente da una stanza all’altra.

Una volta finito, quando la casa era tornata di nuovo splendente come la ricordavo, ci sedemmo a bere il nostro meritato caffè. Thor posò il suo muso pesante sulle mie ginocchia e sembrò ringraziarmi. Era la prima volta, da quando ero piccola e mio padre aveva dato via il mio Rocky, che accarezzavo un altro cane. Lui chiuse gli occhi e rimase fermo, mentre il suo pelo morbido e setoso faceva riaffiorare in me tanti ricordi.

Iniziai a piangere. Quel contatto aveva smosso qualcosa di antico. Non so perché, ma anche Marina vedendomi in quello stato crollò in un pianto muto. Tra noi non c’era più nessuna vergogna. Le barriere erano definitivamente cadute.

Solo dopo parecchie lacrime sentii la sua voce rauca chiedermi: – Allora, ai bambini, come hai fatto a dirglielo?

– Ho detto la verità, – singhiozzai. – Ho cercato di far capire loro che malgrado tutto io e il loro papà continueremo ad amarli come prima…e che la vita va avanti.

 

Nei giorni che seguirono, se sentivo la tristezza farsi largo e il bisogno di chiacchierare con lei, furono proprio i miei figli a ricordarmi quanto fosse importante andare avanti appunto e ricominciare ad avere fiducia in qualcuno.

La nostra amicizia sembrava rasserenarli. Un giorno vollero organizzare un picnic in giardino tutti e sei, più il cane. Un altro un aperitivo a casa mia. A poco a poco tutto diventò più fluido e prendemmo l’abitudine di attraversare la siepe ogni volta che il silenzio diventava troppo pesante. Marina mi accoglieva insieme ai suoi ragazzi, con Thor sempre in testa. Ci adottammo a vicenda, tanto che in pochi mesi, in modo del tutto spontaneo, instaurammo uno stile di vita semi-collettivo.

Iniziammo a prendere a turno i bambini a scuola e a cenare insieme la sera. A poco a poco ci tranquillizzammo tutti e la vita quotidiana di ognuno riprese un ritmo regolare. Gradualmente io mi rimisi in carreggiata. E Marina pure.

Rientrai al lavoro e nel tempo libero che questa condivisione dei compiti mi lasciava potei anche iscrivermi in palestra e a un corso di ceramica che sognavo da anni. Non portavamo più da sole il peso delle nostre piccole famiglie.

Quando il vecchio Thor morì due inverni dopo, i nostri figli fecero dei disegni e preparano un breve discorso da leggere durante la piccola cerimonia di sepoltura organizzata in giardino in memoria dell’adorabile bernese. Una volta terminata, poi, io e Marina comunicammo loro la nostra decisione: all’inizio dell’anno scolastico saremmo andati a prendere un nuovo cucciolo al canile. Solo che questo sarebbe stato il cane di tutti e l’avremmo allevato insieme, come un’unica grande famiglia. Perché quello era ciò che eravamo diventati.

Oggi non riesco a vedermi vivere in un altro modo e mi sento molto più forte. Ho capito che non ho bisogno di nessuno per essere felice… tranne forse una vera amica su cui contare.

Confidenze