Voglio vivere

Cuore
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Ecco la storia più votata dalle lettrici per il n. 29, un racconto di vita autentico in cui tante si sono riconosciute

Mi sento all’improvviso smarrita, questa brutta diagnosi non ci voleva. Proprio ora che pensavo di costruirmi un futuro con Marco. Guarirò? Poi vado a dirlo ai miei genitori e succede un piccolo miracolo

storia vera di Roberta G.  raccolta da Rosa Romano

 

Piove a catinelle, cammino con l’ombrello inclinato ma schizzi di acqua mi colpiscono i piedi e le gambe. Non ci faccio caso, non è questo il motivo per cui sono triste e agitata, ho nella testa un pensiero più pesante del piombo. Colpa di un pezzo di carta che tengo stretto nella mia borsa e che racconta di una pallina nel seno destro, minuscola, quasi invisibile, ma grande abbastanza per cambiarmi la vita. Non l’ho cercata, ma è mia e con lei dovrò fare i conti.Entro in casa e mi guardo intorno. Improvvisamente ho l’impressione che sia fredda ed estranea, che non sia mia, che ci abiti un’altra.

E in effetti è un appartamentino anonimo che presi in affitto quando divorziai da Gianni. Doveva essere per pochi mesi, invece sono passati anni e solo ora mi rendo conto che non mi appartiene, ma a pensarci bene forse neppure io mi appartengo.

Mi muovo smarrita. Tutto a un tratto ho perso il capo del gomitolo di certezze che mi tengono in piedi. Chi sono? Dove sono? Come sono fatta dentro? Cosa cresce nel mio corpo senza che io lo sappia e lo voglia?

E perché proprio dentro di me?

Mi siedo ed estraggo il referto per rileggerlo. Il chirurgo è stato gentile, mi ha spiegato che in una situazione come la mia ormai più del 70% delle persone guarisce. “Sì. Ma l’altro 30%?” mi chiedo. Sono tesa e nello stesso tempo angosciata. Ho paura.

«Devi volere guarire, metterci impegno costanza e fiducia» mi ha detto il chirurgo. Già, ma dove la trovo la fiducia sapendo che dentro mi sta crescendo una bestia decisa a divorarmi pian piano?

Proprio ora che finalmente avevo trovato un po’ di quiete, anzi potrei dire di felicità, ora che avevo trovato Marco e pensavo di ricostruire un futuro con lui…

Non è molto che l’ho conosciuto. In palestra, per un problema alla macchina ho dovuto cambiare orari e l’ho incontrato per caso. Ci siamo guardati ed è scattato subito qualcosa tra noi. Tutti e due abbiamo capito che ci stavamo cercando. Dopo tanto tempo , finalmente ho rivisto il cielo azzurro e cucito cuscini di sogni.

E ora? Devo dirglielo, ma come? “Sicuramente mi lascerà” penso. Forse gli sto facendo torto, ma sono troppo scossa e spaventata per ragionare con lucidità.

Rimetto l’impermeabile ed esco, nonostante la pioggia violenta. Pochi minuti e sono a casa dei miei. Ho ancora un padre e una madre che, benché anziani, sono autonomi e si fanno compagnia uno con l’altra.

Suono il campanello due volte. Viene ad aprirmi mio padre. «Stai piangendo?» mi chiede subito.

«No è solo la pioggia» rispondo. Mamma intanto mi prepara un caffè, lo bevo, mai come adesso ne sento il bisogno.

Pochi minuti e il referto è sul tavolo, al vaglio dello sguardo minuzioso dei miei. Mamma ingoia saliva e mi accarezza le spalle.

Papà scuote la testa e poi dice: «Coraggio, non è un dramma, dovrai fare l’intervento e poi un po’ di terapia, ma alla fine guarirai. Oggi queste cose si curano».

Lo fisso meravigliata. «Come puoi dirmi questo? Mi stai parlando come si parla a un’estranea. Sono tua figlia, non ti interessa, non sei preoccupato?».

Lui mi guarda, tace per alcuni secondi, poi si volta e va verso il suo studiolo.

Mia madre, intanto, mi prende la mano e sorride.

Pochi minuti ed ecco mio padre che torna con in mano un foglio ingiallito dai bordi frastagliati. Me lo porge. «Tieni, era tra i ricordi di mamma, tua nonna. Io l’ho tenuta per affetto e perché dentro ci sono anch’io, Rinuccio. È della zia Pina, allora io avevo cinque anni, lei 20» mi dice porgendomi il foglio che in realtà è una lettera.

La prendo, perplessa, comincio a leggerla.

“23 novembre 1955, sanatorio Regina Elena.

Cara mamma, caro papà, cari fratelli, vi scrivo per dirvi che sto abbastanza bene e vi penso sempre. Mi mancate tanto. E mi mancano tanto anche la nonna Teresa, la zia Genoveffa, Rinuccio… Tutti mi mancate.

La vita qui è tranquilla, siamo in un parco bellissimo e anche adesso che è inverno c’è sempre tanta luce. E c’è anche tanta pace, una pace che a volte mi mette paura e mi fa pensare a quella eterna.

E la paura diventa incubo, soprattutto di notte, quando arrivano gli attacchi di tosse e i dolori al petto, perché nel silenzio delle camere i rumori e i lamenti rimbombano spaventosi. I dottori dicono che non bisogna avere questi pensieri, che qui ci sono macchine ultra moderne proprio per aiutarci a guarire, che ci danno da mangiare cose buone, scelte e decise apposta per noi. Ci dicono anche che questo ospedale è uno dei più belli e che dobbiamo dire grazie a chi l’ha costruito. Ed è vero. Questo ospedale sembra un albergo. Però siamo qui perché siamo malati e non è detto che tutti usciremo vivi. Mi dicono anche che io sono giovane, che ho un fisico forte e che rispondo bene, e io ci credo. Però a volte penso che non sono tanto forte perché io mi sono ammalata e invece Caterina e Maria che erano insieme a me in filanda, sono ancora lì e stanno bene.

Ieri è arrivata una donna di mezza età, si chiama Ernestina e l’hanno messa nella camera con me e Francesca; è pallida e magra, tossisce sempre e sputa anche sangue. Fa la lavandaia. Lo fa da tantissimi anni, va per le case, soprattutto quelle dei ricchi, a lavare la biancheria. Neppure lei sa quanti mastelli di roba ha lavato, d’estate e d’inverno, col caldo e col freddo. Mentre parlava a un certo punto si è messa a piangere, perché a casa ha quattro figli e non sa se li potrà rivedere. Il più piccolo ha detto che forse lo prendono nel collegio dei preti, ma gli altri? Allora Francesca le ha detto di stare tranquilla, che qualcuno ci penserà ai suoi bambini, e poi lei, la Francesca, le spiegherà come uscire di nascosto per andare a trovarli, anche se non è sempre facile e bisogna stare attenti a non farsi beccare.

Il commendatore, il nostro padrone, viene spesso a vedere come vanno le cose e chiede ai dottori chi migliora, chi sta peggio. Noi lo vediamo da lontano, quando siamo nel solarium a fare i bagni di sole. Si capisce che vuole bene ai suoi operai e alle sue operaie. Mi hanno detto che alla moglie del Sergio, che è malata e non ha più nessuno che porta in casa la paga, ha dato dei soldi e le ha promesso che farà entrare in fabbrica il figlio appena compie gli anni. Sì, è bravo il padrone, e ci vuole bene, però a volte penso che se ci siamo ammalate è stato per tutta l’umidità che c’è nella sua filanda, ma lui non ne ha colpa.

Ogni tanto penso: chissà se guarisco? E se guarisco potrò anch’io sposarmi e avere figli? Qui nel reparto degli uomini c’è un ragazzo, lavora in manifattura, fa l’assistente. Si chiama Mario, è moro e molto carino. Ci incontriamo quando siamo nella veranda per i bagni di sole, lui mi guarda, mi saluta e appena può viene a parlare. Mi piace, però non ci voglio pensare. “Non fare sogni Pina” mi dico, “pensa a guarire!”. Però il Mario è proprio bello e ha due occhi neri che ti scavano dentro. Ora vi saluto e vi mando un grosso bacio, è l’ora della terapia e non posso saltarla, io voglio guarire, voglio vivere e voglio… non so neppure io cosa voglio, ma voglio!”.

Finisco di leggere col fiato in gola, l’unica cosa che so dire è: «Zia Pina è stata in sanatorio? Perché non me l’avete mai detto?».

Mio padre mi viene vicino e finalmente mi fa una carezza come faceva quando ero bambina e avevo paura dell’uomo nero. «C’è stata un anno e mezzo e quando è entrata non era certa di uscirne, vista la gravità».

Tace. Taccio anch’io, poi chiedo: «Quel Mario della lettera era lo zio Mario?».

Papà fa cenno di sì con la testa.

«Si sono conosciuti in sanatorio e quando sono usciti si sono sposati e hanno vissuto insieme una vita. L’amore li ha aiutati a guarire» mi spiega la mamma.

«Già l’amore» dico e pensando a Marco sbotto. «Proprio adesso, non è possibile».

I miei genitori mi guardano con occhi interrogativi. Non parlano, ma capisco le loro domande.

«Sì, sì. Proprio adesso che avevo trovato una persona che mi capisce e mi vuole bene, con che coraggio gli dico che sono malata? Mi vergogno, non ce la faccio, meglio chiudere e lasciar perdere» dico d’impulso.

«Anche tua zia si vergognava. Chissà perché certe malattie sono considerate uno stigma da tenere nascoste» dice mio padre.

Vero, penso.

«La malattia non è una colpa e se alcune persone vogliono starne fuori il problema è loro, non hanno il carattere per affrontare la verità» continua lui.

Taccio e continuo a pensare. Ma non a ciò che dice mio padre. Penso a sua sorella, zia Pina che, giovanissima e indifesa, si è fatta più di un anno in sanatorio con la paura di non farcela, ma ha reagito e ha vinto la sua battaglia. Anzi, proprio lì, ha trovato l’amore.

Il cellulare nella borsa sta suonando da un po’, me lo indica mia madre con una discrezione tutta sua. È Marco, vorrei non rispondere, ma poi decido di farlo. Dico «Pronto», un po’ esitante.

«Ciao, com’è andata la visita?» mi chiede subito lui.

«Insomma…» bisbiglio e non so dire altro.

Lui però capisce che qualcosa non va e per un attimo tace. Sento il suo respiro dall’altra parte del filo e penso che ora mi dirà laconico qualche frase del tipo ”Mi spiace, non prendertela, be’ devo andare, ci sentiamo…”.

Invece, con voce ferma e decisa, rompe il silenzio e mi dice: «Passo a prenderti alle sette e ci facciamo una pizza, che ne dici?». Poi dopo una frazione di secondi aggiunge: «Ti amo» e riattacca.

Mi viene da piangere.

Involontariamente chino il capo sulla lettera di zia Pina e lo sguardo mi cade sulle ultime righe. “Voglio guarire, voglio vivere, non so neppure io cosa voglio, ma voglio”.

Piego la lettera e dico a mio padre: «Posso tenerla?».

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