Testo di Santi Urso
Sharahzad, per salvarsi la vita, dovette raccontare molte fiabe per mille e una notte, poco meno di tre anni, dandosi molto da fare con la fantasia per tenere desta la curiosità del re. Se invece che la storia di Ali Babà e i 40 ladroni o quella di Aladino e la lampada incantata avesse avuto a disposizione la favola che stiamo per raccontarvi, avrebbe avuto – con questa soltanto, incredibile e meravigliosa – materia per trent’anni, ricchissima di fascino, amore e avventura. Fosse incastonato nelle notti della magica narratrice e del suo re, lo straordinario racconto si potrebbe intitolare La storia di Walter e Rossana, e trent’anni è proprio il tempo che ci vuole a seguirla tutta, un’ora dopo l’altra, perché tanto è durata, senza mai perdere l’incandescenza della passione. E la prima ragione della sua magia è che l’incontro (felicissimo) dei due protagonisti, a giudicare dalle premesse, non aveva più probabilità di verificarsi di quanta ne abbia una rosa del deserto di vedersi con una stella alpina. Il paragone non è casuale.
Lui Walter Bonatti, nasce montanaro, all’ombra delle Alpi, il 22 giugno 1930. Lei Carla Dora Podestà, nome d’arte Rossana, nasce, da genitori liguri, quattro anni dopo, il 20 giugno 1934, ai margini del Sahara, figlia di italiani in Libia, che allora era “la quarta sponda” di un’Italia che sognava un Impero. Ciascuno dei due cresce in un mondo di labirinti difficili, e a modo loro antitetici: tra cielo e montagna, lui, tra cielo e deserto lei, solitario in parete il ragazzino timido e scontroso, socievole con i nomadi delle sabbie la solare bambina, ghiotta di cuscus. Walter è scalatore per vocazione, Rossana diventerà attrice “per sbaglio”. Di fatto, tutto quello che si può definire il primo tempo della loro vita, corre, per così dire, su binari paralleli, quelli che, ben che vada, si incontrano all’infinito, cioè mai.
Non si ignorano, questo sarebbe impossibile: le cronache parlano molto di loro. Walter Bonatti, che ha compiuto le prime scalate nel 1948, diventa presto il “re delle Alpi” e nel 1954 è il più giovane componente della spedizione sul K2, anche se per lui sarà più un’amara delusione che un’esaltante impresa, a causa del comportamento dei compagni di cordata. Un’esperienza che il suo animo ribelle non dimenticherà mai e che lo convincerà a preferire scalate, e poi esplorazioni, solitarie. Anche Rossana Podestà (che dal tempo delle elementari ha lasciato Tripoli per tornare in Italia con mamma e papà), nel 1954 è già famosissima. Il Dizionario Gremese del cinema italiano, la bibbia del genere, spiega il perché. «Assai graziosa, fresca, aria innocente e maliziosa insieme, deliziosamente impertinente è scoperta, ancora studentessa liceale, dal regista Léonide Moguy».
Un nome che forse oggi pochi ricordano ma che a metà del Novecento ha diretto due film mitici, dedicati al disagio degli adolescenti: Domani è troppo tardi (1949) e Domani è un altro giorno (1951). Rossana è nel cast del secondo. È questo il suo esordio nel cinema, avvenuto “da un giorno all’altro” come lei stessa ha ribadito in un’intervista a Emauele Farneti, per Epoca: «Fare l’attrice mi faceva guadagnare due lire, ma la mia vita vera stava altrove», in un fantastico mondo della mente, più libero e avventuroso dei commercialissimi set cinematografici. Che però la richiedono, come confermavano i giornali, perché «produttori e registi sono affascinati dalla sua aria disinvolta e dal suo charme fresco e invitante». Sono opinioni entusiastiche e reticenti insieme. Senza scomodare lo zodiaco, che mette Rossana Podestà nello stesso segno (i Gemelli) di Angelina Jolie, Marilyn Monroe, Stefania Sandrelli, Alida Valli, solo per fare il nome di qualche superstar (e ci sono anche Raffaella Carrà, Margherita Hack, Natalie Portman), va ricordato che lei, della sua generazione è stata l’attrice più bella e sensuale, con un “ glamour carnale” rivelato nel 1953 dal film messicano La rete, che apre alla Podestà le porte del successo internazionale. Quanto lei sia interessata si capisce anche dalle poche distratte righe che ha dedicato a se stessa, nel risvolto di Walter Bonatti Una vita libera, libro illustrato che ha curato per la casa editrice Rizzoli (con Angelo Ponta, giornalista, montanaro e ribelle anche lui) nel 2012, un anno dopo la morte di Walter. In sostanza ha scritto: “Attrice tra gli anni Cinquanta e Settanta. Dal 1981 è stata per trent’anni la compagna di Walter Bonatti”.
Lei, in verità, non ha mai smesso di dimostrarsi quasi infastidita a chi le ricorda che fa parte della storia del cinema, come grandissima diva («Non rifarei Ulisse ed Elena di Troia, anche se non li rinnego» dice, con una certa ingenerosità verso quei capolavori dell’avventura), forse perché uno dei film che più l’ha consacrata (Sette uomini d’oro) aveva per regista suo marito, Marco Vicario, di cui non parla con entusiasmo. A Michele Giordano, per il settimanale Chi, ricordava, nel 2002: «I nostri rapporti sono congelati. Vicario è una sorta di serpente incantatore. E da ragazza mi ha proprio incantata. Ci siamo conosciuti nel 1953 e lo stesso anno ci siamo sposati».
Se ne separerà nel 1975, quando i figli Stefano e Francesco sono già grandi, e del marito parlerà sempre indicandolo per cognome.
Come si vede, anche come antefatto, per una fiaba di Sharahzad, la materia è complessa e appassionante.
Ma la vera storia comincia il 2 giugno 1981. A maggio Rossana Podestà, in un’intervista, ha detto che, si fosse trovata su un’isola deserta, avrebbe voluto Walter Bonatti per compagno d’avventura. Lui, che (sono parole di Rossana, nel libro) aveva almeno altre cinque ragazze, le risponde subito: «Quando partiamo?». Sempre senza scomodare lo zodiaco, non c’è come sfruculiare una Gemelli, per farle scattare l’orgoglio della sfida. Rossana risponde col suo numero di telefono, giusto per vedere se alle parole seguono i fatti. Lui la chiama e si annuncia per ottobre. Ah bene, pensa lei, guarda quanto gli interesso! È ancora piccata per quel tempo biblico, che lui richiama e: «Forse posso a settembre». Mette giù e richiama ancora: «Facciamo dopodomani?». In realtà non era una trattativa da piacione, era proprio paura: di non essere all’altezza. «Pensava che come attrice dovessi avere chissà quale tenore di vita» ha raccontato lei, «ed era preoccupato di dovermi portare fuori a pranzo in un bel posto».
L’appuntamento è a Roma, il giorno della festa della Repubblica, alle 11, all’Ara Coeli. Ma lui non si fa vedere. Questo è quello che pensa lei, dopo tre ore di vana attesa. Ma è anche quello che pensa lui, in attesa da tre ore, all’Altare della Patria, cioè pochi metri più in là sul lato sbagliato, e parcheggiato in uno spazio riservato alla Presidenza della repubblica. Alla fine lei gira l’angolo, e trova le parole giuste (per mettere a suo agio un timido, lei stessa confesserà: «Volevo colpirlo nell’amor proprio»): «E tu saresti un esploratore? A Roma non sai trovare l’Ara Coeli? Ma se non mi trovi, almeno cercami».
Il risultato è un viaggio in auto, fino a un ristorante in Piazza del Popolo, che lui fa tenendo il volante con un dito per mano, tanto che lei pensa: “Non sapevo che avesse perso le altre in qualche ghiacciaio”. Le mani sono integre, è lui che guida rattrappito e tutto girato verso di lei, praticamente incantato. Escono dal ristorante «e non ci siamo più lasciati». La base di quelle che saranno le loro avventure in Alaska, Patagonia, Polinesia, diventa, dopo un lungo periodo di residenza fra Milano, Roma, l’Argentario, il paese di Dubino, a mezza montagna in Valtellina, in una casa ristrutturata che quasi costa la vita a Walter, che si ritrova con la schiena disastrata, e operato alla spina dorsale, a forza di sollevare pietre.
Nel libro, Rossana aggiunge qualche riflessione su quei primi momenti: «Ero un pochino preoccupata. Walter aveva circa cinque ‘fidanzate’, tutte ignare una dell’altra. La sesta, cioè io, arriva all’improvviso e prende posto nel cuore e nella casa di Walter ufficialmente. Lui è bravissimo a tenere a bada il suo harem, solo che io non sono per niente d’accordo». E soavemente lo mette davanti a una scelta: o io o niente. Pare che lui abbia deciso all’istante.
Così, «in una maniera che potrebbe essere una buona storia per un fumetto, romantica e con un finale da sogno» inizia una storia d’amore che dura oltre la vita.
Ed è come se quell’inizio, a modo suo travolgente, non fosse mai finito: «Dopo pochi minuti stavamo già tubando come piccioni in amore. E siamo andati avanti così per tutto il tempo che abbiamo passato insieme. Mentre ricordo il mio cuore sta diventando piccolo piccolo nel rivedere con la mente il colore dei suoi occhi, l’espressione intensa del suo viso, il suo sorriso». E anche le sue arrabbiature: «Ricordo che faceva paura: gli dicevo sempre che gli venivano gli occhi da leone».
Il tempo si è diviso tra viaggi nei cinque continenti, l’ultimo a Gilf el Kebir, in Egitto, e il nido di Dubino, esposto a Sud («Vedi il sole tutto il giorno, fino a tardi, la sera»), zeppo di ricordi e di centinaia di migliaia di foto ordinate in in cassetti di legno chiaro.
«Così abbiamo incominciato a invecchiare insieme» ha raccontato Rossana, e sarebbe un bellissimo finale, se non fosse che il destino ne ha programmato un altro, che in un romanzo sarebbe altrettanto suggestivo, nella vita è soprattutto struggente. Walter Bonatti se n’è andato il 13 settembre 2011, ucciso da un tumore al pancreas. Lei, solo due anni dopo, a dicembre del 2013.
La cronaca della scomparsa di Bonatti, a suo tempo, ha suscitato molte polemiche. All’ospedale in cui è ricoverato, Walter non ha accanto Rossana negli ultimi istanti, perché lei non ha diritto di stare al suo capezzale: non si sono mai sposati. Come ricorda lei «gli è stato negato il diritto di andarsene con qualcuno che ti tiene la mano e ti dice che non sei solo, che non lo sarai mai». Le concedono poi di vedere la sua spoglia, e senza una sola altra parola le chiedono: «Bonatti si scrive con una o due t?».
È rimasto per lei il conforto consapevole di una scelta decisiva: esploso il male, e prevista una inesorabile rapida fine, Rossana ha fatto in modo che Walter non percepisse la gravità della sua condizione. Ma c’è anche una disperazione, a cui lei ha dato sfogo in Una vita libera: «Lui aveva fiducia in me. Dovevo riuscire a non sbagliare». Invece quando se ne va, lei non c’è: «È morto solo. Io non posso perdonarmi il modo in cui Walter ha lasciato la vita. Ero così orgogliosa di essere riuscita a portarlo verso la fine così sereno e sono disperata ora per non essere riuscita a rendergli la morte degna e dolce come lui si meritava e come io volevo con tutta la mia anima». A Rossana sembrava che Walter avesse cominciato la sua vita da solo e in solitudine l’avesse conclusa. Ma una dea come lei (le grandi dive del cinema sono “imparentate” con le divinità mitologiche) ha proprio questo compito: ricordare agli umani che certe storie d’amore sono immortali.
Pubblicato su Confidenze n 21/2014
Foto: Getty Images
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