Niente è solo nero o solo bianco. E nessuno è soltanto buono o cattivo. Ciò valeva anche per il rapitore. Queste sono frasi che non si ascoltano volentieri quando sono pronunciate dalla vittima di un rapimento. Perché così viene meno lo schema ben definito di Bene e Male che utilizziamo volentieri per non perdere l’orientamento in un mondo pieno di sfumature grigie. Quando parlo di questo, sul volto di qualche estraneo mi pare di vedere irritazione e rifiuto. L’empatica partecipazione al mio destino provata fino a quel momento si raggela e si trasforma in rigetto. Le persone che non hanno alcuna idea di cosa significhi davvero essere prigionieri, mi negano la facoltà di giudicare le mie esperienze usando una sola espressione: sindrome di Stoccolma. (…) Questo giudizio rende la vittima, infatti, due volte vittima, perché la priva dell’autorità di interpretare la propria storia; gli avvenimenti più importanti della sua esperienza vengono così liquidati come le aberrazioni di una sindrome. E proprio quel comportamento, che ha contribuito in modo decisivo alla sopravvivenza del prigioniero, viene giudicato quasi sconveniente. Avvicinarsi a un criminale non è una malattia. Crearsi un bozzolo di normalità nell’ambito di un crimine non è una sindrome. Al contrario. È una strategia di sopravvivenza in una situazione senza via d’uscita, ed è più fedele alla realtà di qualsiasi piatta categorizzazione dei criminali in bestie sanguinarie e delle vittime in agnelli indifesi, davanti alla quale la società si ferma volentieri”.
Wolfgang Priklopil. Questo il nome dell’uomo che rapì Natascha e che la tenne prigioniera per otto anni. Natascha ne aveva dieci la mattina in cui, mentre per la prima volta andava a scuola a piedi da sola, l’uomo la afferrò e la fece salire su un furgone bianco. Nel racconto che la stessa Kampusch ha riversato sulla carta (con la collaborazione e guida della giornalista Corinna Milborn) quei 3096 giorni sono descritti in modo estremamente interessante. Colpisce l’equilibrio della narrazione, la compostezza di un resoconto che non presta mai il fianco a toni apocalittici. Il libro, ormai quasi introvabile nella versione italiana, parte dall’infanzia di Natascha, dalla madre e dal padre, dalla loro separazione, dal rapporto poco sereno che aveva con entrambi, dalla difficoltà di inserimento scolastico, dalle somatizzazioni fisiche, la goffaggine legata al sovrappeso. Natascha racconta chi era la bambina che una mattina si è vestita e ha lasciato l’appartamento che condivideva con la madre senza salutarla e che da un momento all’altro è finita nel peggiore degli incubi che un bambino possa avere.
Cosa vuol dire essere e sentirsi prigionieri? Come si mantiene il contatto con se stessi, come si tiene viva la speranza che arrivi un domani di libertà?
Il caso Kampusch ha sconvolto il mondo in molti modi. Non solo per il rapimento ma anche per il modo in cui il lungo tempo della prigionia è stato raccontato dalla ragazza dopo la fuga che, una mattina di agosto, l’ha messa in salvo. Il corpo di Priklopil è stato ritrovato senza vita poche ore dopo, tutto quello che è stato reso noto di quanto accaduto nella segreta sotterranea e poi nell’appartamento al piano superiore in cui viveva il rapitore ha come unica fonte primaria Natascha. I media e la società non le hanno mai perdonato l’assenza di troppe lacrime, la mancanza di odio viscerale verso il rapitore, la testimonianza scomoda che ha tolto forza alle interpretazioni psicologiche di scuola. Ancora oggi i media si occupano del caso chiedendosi se davvero una bambina sottratta alla sua infanzia e ai suoi affetti sia in grado di sopravvivere come ha fatto Natascha o se dietro il rapimento resista in silenzio una qualche altra, grande, verità.
Natascha Kampusch e Corinna Milborn, 3096 giorni, Bompiani
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