“Penso alle passeggiate per ore e ore col bebè in braccio in una coreografia sempre diversa, dall’esaurimento al pianto, dal pianto all’esaurimento, penso all’animale fiero che è un figlio, a questo fatto di avere il cuore per sempre nel petto di un altro. (…) Poi sono tornata in salotto, davanti alla vetrata, ho camminato dritta verso il riflesso e, un attimo prima di schiantarmi, ho aperto. Mio marito stava di nuovo fumando, aveva aperto il secondo pacchetto mentre insultava me e la luna in parti uguali. Ho visto il fumo che lo avvolgeva e mi ha messo paura. La cosa più aggressiva che mi ha detto in sette anni è stata «fatti vedere da qualcuno». E io nel primo mese di fidanzamento gli ho detto «sei un uomo morto». Siamo rimasti fermi uno accanto all’altra nell’aria gelida, l’umidità del prato ci tingeva le caviglie. I piedi zuppi. La terra rimescolata dalle talpe formava dei crateri. Lui non guardava più verso l’alto, io nemmeno. Eppure mi è parso che una cometa passasse su di noi, breve come tutto. Poi siamo andati a dormire, ognuno nel suo letto”.
Matate, amor. Questo è il titolo originale – e io l’ho afferrato dall’espositore della libreria proprio per la sua potenza – dell’opera-voce della scrittrice, sceneggiatrice e documentarista nata a Buenos Aires nel 1977 ma da anni ‘radicata’ in Francia. Opera che ha fatto il giro del mondo, tradotta ovunque, e dei teatri, riempiendoli fino ad esaurire ogni posto fin quando la pandemia lo ha reso possibile. Prima di scrivere altro, un consiglio: leggetelo ad alta voce, recitatelo, fatelo assaggiare alle vostre corde vocali.
Siamo in Francia, in campagna. Una voce parla, appartiene ad una donna (non ne conosceremo mai il nome), a una moglie, a una madre, a una nuora. La voce abita in una casa insieme al suo uomo, alla suocera e al suo bimbo di sei mesi. La voce abita in se stessa, in un corpo che non è una stanza di un hotel, non è un appartamento fotografato per una rivista di design. La voce abita in se stessa, una casa unica, una casa che non somiglia alle altre, una casa senza armadi nei quali poter nascondere scheletri.
La voce racconta una storia che non è di pazzia. Anche se appartiene a una donna che sembra non riconoscersi, che partorisce e non riconosce l’amore materno al primo sguardo, che finisce tra le lenzuola con un altro uomo, che viene internata in una clinica per essere ‘normalizzata’. La voce racconta una storia che nessuno vorrebbe ascoltare, non chi si violenta l’anima con storie e favole, fiocchi e retorica, non chi si chiude nella galera del senso e del luogo comune. La voce racconta una storia di educazione sentimentale, di liberazione emotiva, di rivendicazione fisica, viscerale.
Ariana Harwicz restituisce alla letteratura una delle sue funzioni e delle sue ragioni d’essere: dire a tutti l’universalità e la normalità di quello che in pochi riescono ad accettare, dire a tutti che siamo animali, animali nell’istinto libero, animali che mantengono una natura insopprimibile.
“Eppure mi è parso che una cometa passasse su di noi, breve come tutto”. Non ho tatuaggi. Ma giuro che se dovessi mai decidermi a farmi segnare il corpo da una cicatrice d’inchiostro, saranno – indelebili, brevi come una vita – queste parole qui.
Ariana Harwicz, Ammazzati amore mio, Ponte alle Grazie
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