Quando in libreria (ero in Feltrinelli a Porta Romana la scorsa domenica mattina) ho visto poggiata a parete questa nuova edizione dei primi racconti di Leavitt ho soffocato male (e malissimo mi ha guardata una delle commesse – è un mio limite, faccio da sempre fatica a chiamare libraio chi non lavora in una libreria propria – quando mi sono lanciata per afferrarne una copia come fosse un’ancora) un urlo.
Una nuova traduzione, l’aggiunta di un nuovo racconto (Dieci minuti) e una prefazione. Tre ottime scuse per comprare una copia di un libro che avevo già e che ho letto e riletto mille volte. Soprattutto, una copertina incredibile, un quadro che ti trascina come un mulinello e ti porta dentro, bordo piscina, le montagne sullo sfondo, un caldo che riesci a sentire, e la musica, le voci, le risate. È uno di quei libri che svolgono infinite funzioni, sostituiscono le stampe o i vasi: è un complemento d’arredo e uno scrigno di gioielli delicati.
Leavitt pubblicò questa raccolta quando aveva ventitré anni e lascia ancora senza fiato la maturità della narrazione del racconto, una narrazione che non ha tutto il tempo del romanzo ma che deve comunque raccontare, deve incidere e fissarsi dentro. Il romanzo, dice bene Leavitt, è come un contratto, un matrimonio, è una grande responsabilità verso chi leggerà e anche verso se stessi. La scrittura di un romanzo, aggiunge, è tormento. Ma il racconto, lavorarci, plasmarlo, ridurlo a infinite forme di scheletro, destabilizza. Molti possono scrivere romanzi, pochissimi possono rendersi indimenticabili con i racconti.
Il romanzo è un atto di grande egoismo e possessività. Invadi la vita dei personaggi, ti trasferisci in un luogo. Il racconto è altruista, generoso. Ti insegna a leggere ad alta voce, quindi a parlare. Ti insegna che se arrivi devi anche prevedere una partenza, se inizi devi sapere che c’è una fine. Con il romanzo puoi tentennare. Il racconto ha un countdown inserito nel cuore, implacabile.
Comincio sempre i miei consigli di lettura con un piccolo abstract. Questa volta faccio il contrario. Vi regalo le ultime righe della prefazione alla nuova edizione. Credo siano il modo migliore per farvi conoscere Leavitt, la sua scrittura, la sua arte dello scrivere ‘breve’, la consistenza di un peso specifico concentrato, e insieme lieve.
“Per quanto possa sembrare strano, questa nuova traduzione di Fabio Cremonesi, meravigliosamente fresca e vitale, vorrei dedicarla a Delfina Vezzoli, la precedente traduttrice. (…) Una donna affascinante, con i suoi tailleur dal taglio sontuoso, le sciarpe di seta indiana tempestate di specchietti scintillanti, la quantità di braccialetti ai polsi, i capelli impeccabili; in breve la contraddizione che la definiva: l’esuberanza romana e la disciplina milanese. L’ultima volta che l’ho vista, a cena dai nostri amici Vittorio Lingiardi e Luca Formenton, mi sono accorto di ciò che le stava facendo il cancro, che l’aveva letteralmente rimpicciolita, rendendola una specie di miniatura di se stessa, una bambolina. Eppure, anche se non era più completamente lei, quello che resisteva era Delfina allo stato puro: la sciarpa, i braccialetti (ormai troppo larghi per i suoi polsi diventati sottili), il tailleur chic. Come sempre, pareva avere con sé un po’ della sua amata Goa, quando attraversava un salotto sembrava lasciare dietro di sé una scia di sabbia marina. Cenammo, poi ci spostammo a bere il caffè nel soggiorno di Vittorio e Luca, dove le venne un repentino attacco di dolori. Vittorio le massaggiò il collo. Non servì a nulla. Lui parve preoccupato. Mi chiese di accompagnarla a casa in taxi, l’autista e io la aiutammo a scendere. Le chiesi se aveva bisogno che salissi con lei. Mi disse di no. Mentre ci baciavamo sulle guance, mi resi conto che in quel momento avevo cessato di esistere per lei. Il dolore mi aveva cancellato, come cancella qualsiasi cosa”.
David Leavitt, Ballo di famiglia, SEM
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