“Rasentando il tavolo aveva fatto cadere Le regole della casa del sidro. Aveva riconosciuto la mela rossa in copertina, era il libro che Violette si portava dietro da Charleville, quello che leggeva ostinatamente. Dalle pagine erano uscite sette fotografie di Léonine sparpagliandosi sul tappeto. Dopo un attimo si era chinato a raccoglierle: Léonine a un anno, a due, a tre, a quattro, a cinque, a sei e a sette. Era vero che gli somigliava. Le aveva rimesse fra le pagine e aveva posato il libro sul tavolo. Il tappo che aveva messo sul periodo Violette per diciannove anni gli era esploso sulla faccia in quel momento. La figlia gli era tornata alla memoria a frammenti, poi a ondate: in maternità quando l’aveva vista per la prima volta, nel letto tra lui e Violette, imbacuccata in una coperta, nella vasca da bagno, in giardino, davanti a una porta, che attraversava una stanza, che disegnava, che giocava col pongo, a tavola, nella piscina gonfiabile, nei corridoi della scuola, d’inverno, d’estate, col vestito rosso un po’ luccicante, che faceva i giochi di prestigio con le sue manine. E lui sempre lontano, come in visita nella vita di una figlia che avrebbe voluto maschio. Aveva ripensato alle storie che non le aveva letto, ai viaggi che non le aveva fatto fare. (…) Durante i trecentocinquanta metri in cui aveva costeggiato i muri del cimitero a sempre maggiore velocità tre pensieri si erano scontrati nel suo cranio come una violenta carambola. Tornare sui suoi passi e chiedere scusa a Violette, scusa, scusa, scusa. Tornare al più presto da Françoise e partire per il Sud, partire, partire, partire. Ritrovare Léonine, ritrovarla, ritrovarla, ritrovarla”.
Avevo letto recensioni che scomodavano la mia amatissima Antologia di Spoon River. Dopo le prime dieci pagine l’ho messo via, cercando di placare un attacco di sbadigli furiosi. Poi qualche giorno fa, mentre stavo per chiudermi alle spalle la porta della mia casa aquilana per tornare (una manciata di giorni, ma il tempo non è mai questione di misure) in quella milanese dopo quattro mesi di assenza, l’ho visto appoggiato in una mensola bassa, quella degli scarti. Senza pensarci troppo, l’ho preso.
Con Spoon River non c’entra nulla. Non è che possa bastare un cimitero e qualche morto per far somigliare un libro, cari critici di professione e/o di bolla d’acquisto. Resta vero sempre un unico consiglio: i libri vanno letti, scrivere una recensione basandosi sulla cartella o sul riassunto fatto dall’ufficio stampa o peggio ancora dall’autore mette solo una immensa tristezza.
Violette, la protagonista, è secondaria. A mio vedere, almeno. Sono snervanti molti personaggi/clown. Sono snervanti i passaggi che dovrebbero far ridere. Sono snervanti le metafore della cura e semina e raccolto; è fastidiosa la mole di zucchero filato (amaro ma sempre zucchero è) che veste la ragazza poi donna che indossa l’inverno sopra l’estate. È fastidioso il lavoro presso la stazione dei treni e ancora di più quello di guardiana dei cimiteri. È un po’ fastidiosa tutta, la tipa.
Il libro della Perrin ha però un personaggio disegnato in modo superbo: Philippe Toussaint, marito di Violette.
Non posso dirvi molto, questo romanzo è anche un giallo. Questo romanzo è soprattutto un libro che dovrebbe essere letto da chiunque abbia, per ragioni e motivi i più vari, distolto lo sguardo da un figlio. Dovrebbe leggerlo chi è stata madre totale (ottimo il ritratto di quella di Philippe, Chantal) e ‘assassina’. Chi è stato figlio di sguardi distratti. Chi ha cercato risposte senza fare domande. Chi si è costruito un mondo nero di incastri fantasiosi e ha mandato all’aria le cose vere, i frutti dalla forma forse imperfetta ma dalla polpa deliziosa. È un romanzo sul grande dolore delle cose che accadono casualmente, senza la consolazione e il rifugio, senza l’anestesia, della colpa.
Valérie Perrin, Cambiare l’acqua ai fiori, edizioni e/o
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