Trama – La storia fatta di storie di Rose comincia in un retrobottega a West Hanratty, nell’Ontario, Canada, una piccola cittadina conservatrice, stretta tra le maglie dell’omertà e finisce quarant’anni dopo. In famiglia sono quattro, Rose, suo padre, Flo – la donna che ha preso il posto della madre di Rose – e Brian, il fratellastro minore. Dieci capitoli per dieci racconti, ognuno indipendente dall’altro ma in realtà interconnessi, che ruotano intorno e dentro l’esistenza di Rose. La conosciamo bambina, assistiamo alla sua crescita, alla sua adolescenza, ai suoi amori, al matrimonio e al divorzio, alla sua maternità, alla sua carriera di attrice, alle sue partenze e al suo ritorno, colmo di malinconia. Rose parte ogni volta, parte per andare a studiare, parte per allontanarsi da sguardi insistenti, parte per non dover restare incastrata nella trama di una vita che non riesce a immaginare se non costellata da continue interruzioni. “Chi ti credi di essere?”, domanda per la prima volta la matrigna a una Flo ancora bambina. E la risposta è che quello che crediamo di essere altro non è se non una lettura personale di noi stessi fatta alla luce delle ombre che ci cadono addosso come grandine, rovinose, come petali, e sono carezze.
Un assaggio – Sua madre era morta. Quel pomeriggio aveva detto al padre di Rose: – Non so se riesco a spiegare come mi sento. È come se avessi un uovo sodo nel petto, con il guscio e tutto -. Prima di sera era morta: aveva un grumo di sangue in un polmone. Al tempo Rose era una neonata in culla, perciò di tutto questo non ricordava niente. L’aveva sentito raccontate da Flo, che a sua volta doveva averlo sentito da suo padre. Flo era comparsa di lì a poco, a tirar su lei dalla culla, sposare il padre e trasformare il tinello in un negozio di alimentari. Per Rose, la casa era sempre stata così e Flo era da sempre sua madre, quindi immaginava i circa sedici mesi che i suoi genitori avevano passato insieme come un tempo armonioso, di gran lunga più educato e pacifico, con piccoli tocchi di abbondanza. Non aveva granché a cui rifarsi, tranne certi portauovo comprati dalla madre, con un delicato decoro di uccelli e foglie di vite, e disegnati con una specie d’inchiostro rosso che, peraltro, cominciava a sbiadire. Non restavano libri né vestiti né foto di sua madre. Il padre doveva aver eliminato tutto quanto, o forse era stata Flo.
Leggerlo perché – Intanto perché la Munro, premio Nobel nel 2013, è una delle regine delle short stories. In Italia il racconto è, tra le forme letterarie, la meno in voga. Purtroppo, dico. Purtroppo perché forse, più della poesia, è il luogo della narrazione in cui si devono bilanciare alla perfezione tutti gli ingredienti: non hai la lunghezza e neanche gli spazi vuoti o interpretativi a correrti incontro in aiuto. Se scrivi racconti, se vuoi diventare indimenticabile e vuoi lasciare traccia e peso, devi essere bravissimo e basta.
Vi consiglio di leggere questa raccolta partendo da un racconto centrale, scegliete voi quale, e poi andare verso la fine e poi tornare all’inizio. La magia di questa raccolta magistrale la scoprirete così: la Munro ci ricorda che la vita non ha una trama lineare, che per raccontarsi non si può sempre usare lo stesso metro, lo stesso ritmo. Che si può raccontare la storia di una stessa persona in modo nuovo, libero, legato ai tempi, al tempo. Che una stessa vita va raccontata avendo il coraggio di mettere punti definitivi, punti che non chiudano in modo fittizio un capitolo ma che abbiano la forza rivoluzionaria e feconda della fine. Chi ci crediamo di essere? È questa la domanda che poi viene da farsi. E il racconto, il racconto della vita, ci regala la risposta: siamo chi ci capita di essere, a volte per scelta a volte no, a volte in modo coerente a volte no, a volte a lungo a volte no.
Alice Munro, Chi ti credi di essere?, Einaudi
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