“Molti affermano che se dottori e analisti avessero maggior empatia sarebbero più bravi nel loro lavoro e se certi politici avessero maggio empatia non appoggerebbero certi orribili provvedimenti. Sicuramente molti di noi sentono che se le persone nelle nostre vite avessero più empatia per i nostri problemi – se potessero davvero sentire quello che sentiamo noi – ci tratterebbero molto meglio. Ritengo questo ragionamento del tutto sbagliato. I problemi che affrontiamo, come individui e come società, raramente sono dovuti a una mancanza di empatia. A dire la verità, sono spesso dovuti a un suo eccesso. Il mio non è soltanto un attacco all’empatia. L’agenda è più ampia. Voglio perorare la causa del ragionamento consapevole e deliberativo nella vita di tutti i giorni, sostenendo che dovremmo sforzarci di usare le nostre teste piuttosto che i nostri cuori. In gran parte lo facciamo, ma dovremmo farlo di più. (…) È chiaro che le emozioni giocano un ruolo potente nelle nostre vite morali – e che talvolta questa sia una buona cosa. (…) Ma ho scritto questo libro perché credo che alla nostra natura emozionale sia stato dato eccessivo valore. Abbiamo istinti, ma abbiamo anche la capacità di dominarli, di riflettere sulle questioni, comprese quelle morali, e di giungere a conclusioni che possono sorprenderci. Penso che questo sia il luogo in cui c’è la vera azione”.
Questo saggio (dalla non difficile lettura) di Bloom, psicologo dell’età evolutiva alla Yale University, è davvero un testo che consiglio a tutti come un vero e proprio salvavita e non solo, è anche un salvamondo. A incuriosirmi è stato ovviamente il titolo: come tutti e tutte anch’io ho sempre fatto uso abbondante del termine senza conoscerne, come zucchero e sale, i tanti effetti collaterali. Un’amica è stata lasciata da un fidanzato/amico/amante? Il losco figuro non è dotato di empatia, è brutto e cattivo. L’agenzia delle entrate ha fatto una multa al nostro amico che non paga le tasse da sempre? Che scorretti, mancano davvero di empatia! Una tal dei tali ha chiesto la fattura ad un nostro nobilissimo parente che fa l’idraulico a nero per arrotondare con una manciata di tanti zeri il reddito di cittadinanza? Che bruttissima persona davvero sprovvista di empatia! Bisogna mettersi nei panni altrui e capire, comprendere, scusare, chiudere almeno un occhio, non fare la spia perché altrimenti non siamo figli di Maria e quando moriamo andiamo laggiù e ancora e ancora, il catalogo è infinito. Ai casi che potremmo chiamare a metro 0, quelli che ci toccano da vicino e dei quali mai consideriamo le conseguenze generali (se i cari e bravi parenti di tutti noi non pagassero le tasse come potremmo costruire e usufruire di uno stato anche solo parzialmente sociale?) si aggiungono le tante situazioni che dell’empatia ‘di pancia’ proprio non hanno bisogno.
Per introdurre il suo ragionamento (che tocca l’utilità e la non utilità dell’empatia in politica, in famiglia, in amore) Bloom, in tempi non ancora Covid sospetti (il testo è del 2016), porta come esempio Rebecca Smith, una bambina che si ammalò gravemente a otto anni dopo la somministrazione di una dose difettosa di un vaccino. Tutti empatizzarono con la bimba e la famiglia, ovviamente: avevano un volto, un dolore, una storia. Nessuno empatizzò con i tanti dati che i medici fornirono per dimostrare che milioni di bambini erano stati salvati: non c’erano volti, non c’erano lacrime, non c’erano storie. Se il sistema sanitario avesse empatizzato con la piccola Rebecca e avesse fermato la campagna vaccinale avremmo giudicato il comportamento ‘umano’. Ma come avremmo giudicato, poi, le conseguenze drammatiche determinate dalla recrudescenza di una malattia non più arginata?
Paul Bloom, Contro l’empatia, Liberilibri
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