«Feccia sporca, miserabile, scansafatiche, ignorante e criminale». Andò giù duro il cronista del New York Times inviato a Battery Park per raccontare di quella strana umanità, povera ma non disperata, che affollava la terza classe di una nave a vapore bloccata dall’alba di giovedì 16 dicembre 1880 all’ingresso della baia di New York, con l’ordine tassativo delle autorità portuali di non far sbarcare nessuno, nemmeno l’equipaggio. A bordo c’erano stati due casi sospetti di vaiolo. Un ragazzo di diciassette anni e una donna di quarantaquattro avevano ormai da giorni quelle piccole macchie rosse sulla pelle che erano i segni più evidenti della malattia, ma a bordo, denunciò il cronista, non erano stati presi provvedimenti per isolarli dagli altri passeggeri. Sempre che una qualche forma di isolamento fosse possibile nelle condizioni di sovraffollamento e promiscuità in cui avevano fatto la traversata transoceanica. Per non dire delle precarie condizioni igieniche…Il piroscafo era parte della flotta della compagnia norvegese Anchor Line, specializzata nei viaggi dalla vecchia Europa. (…) Completamente italiano era il carico umano, imbarcato qualche settimana prima a Napoli e Palermo. Settecentocinquanta persone stipate in uno scafo di novantatré metri che gli stessi armatori, nella documentazione presentata alle autorità doganali, dichiaravano idoneo a ospitare non più di trecento passeggeri. Quando salì a bordo, il dottor Smith, l’ufficiale medico inviato dall’autorità portuale, si trovò davanti una scena che avrebbe avuto difficoltà anche a descrivere ai suoi superiori. Una folla abbandonata a se stessa, provata dal lungo viaggio, sporca, spossata dalle ricorrenti malattie. Uomini e donne malnutriti, ammassati in locali umidi, bui e maleodoranti”.
Lazzaroni indesiderabili. Questo, eravamo noi. Questo erano i nostri nonni quando, disperati, poveri, affamati, senza speranza, presero il coraggio di dire addio alla loro patria, alle loro famiglie, e partirono per un viaggio che per molti ha avuto ritorno solo nei sogni.
Il saggio di Renato Cantore è una lettura per ritrovare lo spirito di un tempo lontanissimo che ci ha visti ultimi tra gli uomini, considerati al pari di animali infetti; è una lettura necessaria a noi, necessaria per dare respiro all’arroganza che ci siamo cuciti malamente addosso, la convinzione di essere e appartenere ad un girone superiore. È, soprattutto, una lettura che andrebbe proposta e forse spontaneamente costretta alle nuove generazioni, quelle che della nostra necessità di migrare nulla davvero sanno e guardano con disgusto e rifiuto e violenza al diverso, all’ospite, al rifugiato. I luoghi comuni vogliono gli italiani accolti e osannati ovunque in ricordo dei numerosi passati gloriosi. Luoghi comuni, appunto. Se ancora oggi in molti Paesi siamo guardati a vista con timore (maleducati, confusionari, furbi, lestofanti, ladruncoli, evasori, bugiardi, arrivisti, affabulatori) alla fine dell’Ottocento e per gran parte del Novecento dello scorso Millennio siamo stati accolti senza troppo entusiasmo, rinchiusi in ghetti fisici e di status/ruolo senza uscite di sicurezza.
La storia degli italiani a New York, del nostro lunghissimo percorso di adattamento e svezzamento culturale, l’esperienza di due visionari nel ghetto dei migranti, Leonard Covello (educatore e sociologo) e Vito Marcantonio (avvocato e uomo politico), sono il tema portante di queste pagine: un popolo difficile, il nostro, che ha voluto mantenere forte i tratti del proprio carattere mentre contribuiva alla costruzione fisica di un nuovo Paese. Leonard e Vito non hanno mai abbandonato il ghetto, ma hanno anzi lottato insieme alla comunità per far riconoscere la dignità ad una lingua, aprire scuole di comunità, far avere alloggi dignitosi, diritti di cittadinanza e una rete di protezione sociale. I nostri “miserabili, scansafatiche, ignoranti” sono riusciti, ricordiamolo sempre, a diventare cittadini, buoni cittadini, altrove. Senza dimenticare le radici, contribuendo a nuove fioriture.
Renato Cantore, Harlem, Italia, Rubbettino
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