“Zagabria, 12 giugno 1995 – Egregio signor Presidente! Le scrivo per esprimerle il mio profondo dispiacere e, mi permetto di dire, anche la mia delusione. Non sapendo più a chi rivolgermi, ho deciso di scrivere a Lei confidando nella Sua bontà e disponibilità. Mi scuso sin da subito per il disturbo e per lo stile impacciato di chi non è abituato a scrivere testi del genere, ma la lettera che Le chiedo gentilmente di leggere fino in fondo è importante e non riguarda solo me. Sono figlio di un combattente croato di Vukovar considerato scomparso, al momento sono ospitato nel centro dell’esercito croato (l’ex Scuola di Politica) a Kumrovec insieme a mia madre e mia sorella. (…) Sono ormai anni che trascorriamo le nostre serate davanti alla tv nella speranza di sapere qualcosa su nostro padre, ci alziamo la mattina per andare a scuola come niente fosse per poi rientrare in una cameretta di 10 metri quadri e trovare nostra madre afflitta perché in mancanza di un fornello non le è possibile riscaldarci una bistecchina, fornitaci dalla mensa. Per non parlare dei mesi in cui abbiamo dormito letteralmente per terra, ragione per cui una volta mi sono preso una broncopolmonite. (…) Prima della guerra la maggior parte di noi non sapeva cosa fosse la povertà, e quando abbiamo perso tutto abbiamo sperimentato sulla nostra pelle cosa significhi avere e non avere. Mentre per molti dei nostri concittadini l’unico pensiero è come procurarsi permessi di importazione, appartamenti, riconoscimenti e altro, la nostra sola preoccupazione è la speranza di rivedere nostro padre vivo”.
Quando, nel 1991, comincia ad aggravarsi la tensione tra serbi e croati Ivana Bodrožić aveva nove anni. Della guerra non aveva mai sentito parlare e forse il primo indizio che qualcosa cominciasse a non funzionare – indizio che troviamo nella prima pagina del suo romanzo – è una frase pronunciata in un afoso pomeriggio d’estate da suo padre. La piccola sta cantando una canzone mentre prepara la valigia per una vacanza al mare (partiranno lei, il fratello di sedici anni – autore della lettera che ho riportato in apertura – e una vicina che di anni ne ha quindici, Željka), una canzone che fa così: “Si sbaglia, si inganna chi proclama che la Serbia è debole”. Nervoso, dopo aver chiuso con forza il giornale che sta leggendo, il padre tuona: “Non voglio mai più sentirla! E ricordati di non parlarmi più in serbo, noi siamo croati, maledizione!”.
Costruito quasi come fosse un diario di vita la piccola protagonista ci porta in un teatro di guerra reale, non sul campo di battaglia ma nelle terre della sconfitta, quelle dei civili, quelle dei bambini, degli uomini che devono diventare soldati da un giorno all’altro e convincersi che uccidere è giusto, quelle di chi deve accettare la fine di un tempo, di una pace, di una nazione, di una famiglia, in nome di qualcosa che ha solo e sempre il sapore di morte.
Ivana ha vissuto una guerra contemporanea, a un passo da noi. E la sua testimonianza, pur romanzata, è schietta, nuda, sincera, una frustata alla retorica del senso dei combattimenti e del sacrificio che questi impongono a tutti. Scoppia la guerra, muoiono gli amici, uccidono tuo padre che credevi disperso, forse qualcuno avrà pietà altrove guardando un servizio montato ad arte ma intanto tu devi andare a scuola, intanto tu devi perdere una casa e dormire per anni in una stanza di una ex Scuola Politica, intanto tu puoi innamorarti, intanto puoi cercare di difendere la cosa più cara che hai: non una nazionalità ma un paio di Dr. Martens blu a punta metallica.
La guerra è un susseguirsi di giorni tragici e normali, giorni ai quali ti abitui, giorni che ti abituano a perdere tutto. E tutti.
Ivana Bodrožić, Hotel Tito, Sellerio
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