di Tiziana Pasetti
Trama – Nel 1947, nello splendore dell’Alta Val d’Isarco, nel paese di Brennero, viene ritrovato il corpo senza vita di un ufficiale delle SS. L’uomo si era dato alla fuga perché riconosciuto come criminale di guerra. Il suo nome era Gerhard Bast. 56 anni dopo, all’inizio dell’estate del 2003, Martin Pollack – traduttore, giornalista e scrittore – e sua moglie partono alla ricerca del bunker nel quale suo padre era stato trovato morto una domenica da una famiglia che stava facendo una passeggiata. Due colpi alla testa e uno al petto: suo padre era stato ucciso. Martin ha due padri, uno che ha 22 anni più della madre, il suo patrigno. Un altro che è morto quando lui aveva tre anni e che forse avrà visto, senza serbarne memoria, forse un paio di volte. È Gerhard, l’amore che sua madre aveva vissuto tradendo una promessa. Chi era quell’uomo, perché sua madre ha raccontato così poco, poi? Martin Pollock ha scelto di partire, andare a cercare, nell’ultimo istante di un uomo, il senso di una storia familiare soffocata dalle ragioni e dalle furie della storia. Un reportage intimo e corale magistrale.
Un assaggio – Mio padre venne al mondo nel 1911 a Gottschee, in sloveno Kočevje, in quella che era al tempo la Carniola, Land della Corona; tuttavia non era un autentico figlio di Gottschee, ma figlio di immigrati. Nel centro dell’isola di lingua tedesca che portava il nome di Gottschee i suoi genitori abitavano soltanto da un paio d’anni. Il nonno vi si era trasferito nel 1907 da Tűffer, un grosso paese della Stiria inferiore, per lavorare come praticante in uno studio legale. In che modo fosse giunto alla cittadina della Stiria non lo so, so che gli studi li aveva compiuti a Graz. Un anno dopo la nonna, al suo primo incarico di insegnante, era stata assegnata alla scuola elementare femminile di Gottschee, non essendoci a Laibach, sua città natale, abbastanza posti per maestri tedeschi. Fu insegnante con tutta l’anima, insegnare ai bambini le dava grande piacere, mentre la vita di Gottschee, per contro, le andava stretta. Gli abitanti di Gottschee erano persone di un tipo particolare, con una lingua antiquata, un dialetto vecchio di secoli che automaticamente escludeva i forestieri, anche quando provenivano da Laibach, distante appena sessanta chilometri. Laibach/Ljubljana, Lubiana in italiano, capitale del Land della Carniola, era un altro mondo. Vita cittadina. Società. La filarmonica. Il teatro tedesco. Il circolo tedesco. Balli. Era una città slovena, tuttavia i tedeschi vi rappresentavano una minoranza forte, che occupava posizioni politicamente ed economicamente rilevanti, e di conseguenza era consapevole del proprio valore. A Laibach noi eravamo a casa, raccontava la nonna. Mai le salì alle labbra il nome Ljubljana, le sarebbe parso un tradimento: Laibach era la nostra città.
Leggerlo perché – Le storie di vita sono infinitamente più difficili da scrivere rispetto a un romanzo frutto di fantasia. La vita è disarmonica, insensata, risente delle influenze di altre figure umane, di un periodo storico: tanti conti non tornano, raccontarla può essere dispersivo, sfilacciare la logica narrativa necessaria a non far perdere il lettore. Il reportage di Pollack, la sua storia di vita, quella di suo padre, di sua madre, della storia di una parte d’Europa stretta nella furia della guerra, è davvero, come l’ha definito Claudio Magris, un gioiello: l’equilibrio giornalistico ha consentito ai fatti di intrecciarsi agli eventi, alle azioni singole di trovare parte di senso nell’ombra di un conflitto.
Martin Pollack, Il morto nel bunker, Keller
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