“Proprio sotto le arcate del ponte c’era una casupola in cui viveva una cicciona che faceva la mignotta per i poveracci dei Castelli. Marcaccio entrò da lei e quando tornò per ripartire gli annusai addosso sangue e un odore di aceto. Non sapevo cosa avesse fatto con la cicciona, né allora immaginavo che al riparo del ponte dove sbattevano il capo gli angeli suicidi ci fosse la troia degli scannatori; eppure percepii che sangue e aceto avevano a che fare con una roba forte, una roba che ti fa girare gli occhi. Come mettere insieme la boscaia, l’altezza del cielo, il ponte ricostruito dai tedeschi durante la guerra e il vulcano spento che adesso era una valle. Marcaccio fischiava, si era tirato fino all’omero le maniche della camicia: era una bestia viva, nata dalla lava di uno dei cento vulcani.
Marino ricordo che era bellissima. Stava su una rupe di pietra nera e tirava sempre vento. Torno spesso lì anche ora, c’è il mio amico il Francesino che ha una palestra di boxe e lavora come bodyguard in una discoteca a Ciampino, sotto il Raccordo Anulare. Mi accompagna lui a fare giri e mi tiene nascosta una cassa con gioielli e oro. Regali antichi, di amici che non ci sono più. Anche l’Infiorata a Genzano mi metteva allegria. Mi spurgava dalla morte degli animali che avevo visto massacrare, anche se l’odore e la vista del sangue non scomparivano. La cabina di guida del camion ne era satura. E quando il facchino Fortunato incollava i cosci o le spalle o le costate per agganciarli alle pareti di pietra delle macellerie, il sangue gli colava nella canottiera di lana e impregnava l’asciugamano con il quale si copriva il collo.
La luce dei paesi dei Castelli era una festa. Tutti ridevano. La morte sembrava che non ci avesse mai sfiorato. Invece, già allora, eravamo una banda di criminali”.
Una mattina di fine settembre un uomo è entrato in una libreria. “Non posso tenere in casa un libro come questo, ho dei nipoti, non dovreste vendere roba come questa”, ha detto a Paola, la proprietaria, posandolo vicino alla cassa e andandosene di fretta. Qualche giorno dopo, mentre preparavamo il gruppo di lettura, mi è caduto lo sguardo su una copertina. Una bella foto e due parole che sono arrivate dritte come proiettili: Roma e criminale. L’ho preso. Ho dato uno sguardo veloce. “Perché questo libro è qui fra le cose amministrative?”, ho chiesto a Paola. E lei mi ha raccontato di quell’uomo. “Prendilo, se vuoi”, mi ha detto. L’ho preso. L’ho portato a casa con me. L’ho letto in una notte, come mi capita sempre quando mi arde dentro una passione, un colpo di fulmine.
Nei luoghi che fanno da altare e inferno alla storia di Alfredo Braschi e Lallo Lo Zoppo io sono nata. Conosco tutti gli odori, da quello della vite e degli ulivi a quello del sangue che scorre senza parsimonia. Conosco la bellezza che toglie il fiato dei paesaggi incantevoli, delle colline, delle vie alberate, conosco la paura che ti si appiccica sulla pelle e penetra. Ero una ragazzina di tredici anni e il destino di tutti noi era segnato: io me ne sono andata, ma lì sono rimasti quelli che avevano già un’ombra gettata sul futuro. Non si sono salvati. Non hanno studiato, sono finiti chi per strada, chi ad arrotondare la giornata con lavori in nero, chi a fare la spola fra il ferro di cavallo di Tor Bella Monaca e i Castelli. Fra di loro, esistono codici e regole. Sono padri e madri, oggi. Hanno sorrisi che ti incantano, se li incontri. Li abbraccio ogni volta che torno: è più difficile giudicare o prendere le distanze quando non dico il più grande ma una manciata di criminalotti di Roma sono stati amici tuoi.
Ho pianto senza ritegno e mi è rimasto un tremore alle vene dei polsi. Perché quando un luogo ce l’hai dentro, quando dentro hai radici, si acuisce tutto: l’amore, il dolore, l’odio.
Una lingua perfetta, sartoriale. Dura, dolcissima. Un ritratto dal vero, una eredità pasoliniana cristallina. Aurelio Picca ha scritto un capolavoro.
Aurelio Picca, Il più grande criminale di Roma è stato amico mio, Bompiani
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