La trama – È lo stesso Scerbanenco a raccontare all’inizio del suo primo romanzo (pubblicato nel 1938) come nasce la storia di Elena: “Una sera di molti mesi fa ho seguito una donna. Ero solo e sconsolato. Avevo visto quasi tutti i film che si proiettavano sugli schermi ambrosiani, ero stato già in due caffè a annoiarmi, e passeggiavo in una via centrale di Milano, quando vidi quella donna. La seguii automaticamente. Era alta, bionda, il sole le aveva brunito il viso e le braccia. Camminava con passo agile e rapido. A quell’ora tarda, nel buio grigio delle strade milanesi, la sua figura aveva un senso di avventuroso e di proibito”. A un tratto, mentre Giorgio stava preparando dentro di sé “le antiche, necessarie parole per avvicinarla”, si fecero incontro alla donna un uomo attempato e un bimbo che le si aggrappò alla mano. “Ecco perché non seguo più le donne e perché ho scritto questo romanzo”. Elena, giovane e bella, fa la pellicciaia. È benvoluta dal suo principale, che l’ha aiutata quando la ragazza è rimasta incinta di un ragazzo che non si è assunto le sue responsabilità. L’uomo, non più giovane e con una moglie allettata, è innamorato. Elena lo ha ringraziato come poteva, chiamando con il suo nome il suo bambino. Sei troppo bella per rovinarti le mani con questo lavoro, le dice un giorno. E così Elena diventa attrice di teatro e poi cantante di varietà. Elena ha un buio nel cuore. Molti uomini proveranno a riportare la luce in quel luogo magico, in quel muscolo involontario. Chi sarà il fortunato?
Un assaggio – Per tutto il giorno si abbandonò alla città come si sarebbe abbandonata a un amore. Camminò senza uno scopo per la Galleria, per il corso Vittorio Emanuele, per i viali dei giardini pubblici, dove vide le stesse piante, le stesse aiuole, lo stesso genere di gente che vi aveva visto fin da bambina. Si perdette per l’infinito corso Buenos Aires, entrando nei negozi, comprando piccole cose inutili, senza pensare al denaro che spendeva, calma, felice, di una strana felicità, fatta di niente, di abbandono. Poi, verso le quattro, si decise ad andare da Tauscher. Era questo lo scopo della sua venuta a Milano. Voleva restituirgli di persona il denaro che le aveva dato. Non poteva farglielo avere così, con due righe di ringraziamento, perché non era stato soltanto un prestito il suo, ma molto, molto di più. Sorrise dentro di sé pensando che forse era stata una dichiarazione di un uomo incapace di poesia, ma sensibile, innamorato. Lo cercò prima nel suo ufficio, ma non c’era. Era all’albergo. Qui lo trovò in uno dei grandi saloni deserti, pieni di poltrone troppo comode, illuminati da una strana luce indecisa, giallognola, che rammentava certe grigie giornate di pioggia.
Leggerlo perché – Scerbanenco va letto e basta, tutto. Scerbanenco va letto perché è stato il primo a capire che la fine e l’inizio di ogni storia d’amore, di ogni romanzo rosa, comincia dalla pagina che viene dopo l’ultima. Quella apparentemente mai scritta, quella dalla quale inizia, nasce, ogni giallo che si rispetti. Scerbanenco va letto perché ha scritto prima di tutti quello che poi tutti avrebbero provato a scrivere (senza riuscirci): sua è la capacità di immaginare e rendere una realtà – dei luoghi fisici e umani – chiarissima più del vero. Scerbanenco va letto perché ti fa innamorare, come era innamorato lui, di Milano, una Milano sfregiata dalla disperazione dettata dalla solitudine di chi la abita e proprio per questo assetata di riscatti grandi, una Milano che conserva il tocco e le tracce di umanità nelle segrete stanze della sua estrema timidezza.
Giorgio Scerbanenco, Il terzo amore, La nave di Teseo
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