Trama – Amos aveva una memoria formidabile e anche quella mattina ne aveva saputo dare dimostrazione. Anna, sua moglie, gli aveva domandato se ricordasse dei versi di una poesia che le aveva fatto leggere nel passato, un passato già denso ma ancora recente, poco distante. “Sia per te la grande neve il tutto, il nulla. Gli occhi ancora pieni dell’origine, le mani aggrappate solo alla luce”, le recita mentre sta aprendo una confezione di biscotti Krumiri, Amos, le parole di Yves Bonnefoy. Le recita alla perfezione poco prima di precipitare per pochi istanti in un vuoto o in un altro dove. È l’inizio di un incubo: cosa può essere stato? Gli esami diagnostici non rivelano nulla, nell’immediato, ma il consiglio è di indagare in profondo, la meta consigliata è Roma. Non vorrebbe andare, Amos, ma sua moglie lo convince. “Esco a fare una passeggiata, due passi fino a Piazza di Spagna”, dice Amos, “torno tra mezz’ora”. Amos non è tornato. Arrivano i risultati degli accertamenti: Amos non ha nulla. Ma Amos è sparito nel nulla. Anna lo attende. Lo attende quel giorno, lo attende il giorno dopo, lo attende mentre le figlie crescono, lo attende, lo cerca nei ricordi comuni e nei segreti, nel non detto. Lo attende, lo immagina – sei morto? sei vivo? sei perduto? Amos? – lo crea.
Un assaggio (remix) – Nei mesi dopo la sua scomparsa, nonostante un tempo inclemente, avevo preso a camminare per la spiaggia della Pinetina. Speravo di incontrare Amos. Quando si dice “dopo la scomparsa del marito è impazzita”, si intende questo. D’un tratto ero senza futuro e senza passato. In questi anni sono andata raramente alla Pinetina. Ma Emma è affezionata a quel mare perché un’estate avevamo preso una casa in affitto, proprio dietro le dune. Con Emma a volte passo davanti a quella casa: una sorta di cubo bianco con gli avvolgibili grigio chiaro e una scala esterna che porta alla terrazza. Ci sono cose che non sono più riuscita a fare: sembrano appartenerti, paiono azioni abituali della tua vita, ma non è così. Sono abitudini che si formano perché le dividi con qualcuno e se lui non c’è più, tornano estranee, lontane. Mi sono mancate le spiagge di notte? I finestrini abbassati per le strade di campagna? Ho perso questi gesti e le parole che li accompagnavano. Ho ripreso a parlare da sola da quando Amos se ne è andato. Lo facevo anche da bambina: dialogo con qualcuno che non so chi sia ma che mi ascolta. Resterò in questo terrore segreto, tra due inaccessibili dolori. Nulla si avvicina davvero e nulla se ne va per sempre.
Leggerlo perché – Per chi della lettura fa un mestiere 162 pagine si leggono in un paio di ore. Ore che diventano fredde, burocratiche, stitiche: ti aspettano parole da scrivere, un giudizio, una critica spesso viziata. Se hai una benedizione che ti insiste addosso il piacere della lettura, e anche il dolore, e la libertà di dire poi, riesci a difenderli. Così è accaduto che per leggere 162 pagine ho impiegato quasi sette giorni, sette giorni che per altri motivi miei, di confine alla lettura e centrati di vita, sono durati qualcosa come 49 anni. Avrei voluto lasciar decantare ancora, aspettare. Ma un libro così rischi di doverlo aspettare per anni, prima che ti si chiarisca davvero. Cotroneo ha scritto, scolpito, lasciato andare libere e matematiche come le onde complesse, parole apocalittiche e primordiali. Quella che racconta è una storia all’interno della quale galleggia a occhi chiusi, una storia che è intenzione (io non vi anticipo né svelo nulla ma vi prego, maneggiate questo libro con cura) e nello stesso tempo funzione. Lascio decantare, partecipo – e mi tremano le mani e il cuore già di suo – alla lunga cerimonia di ogni addio.
Roberto Cotroneo, La cerimonia dell’addio, Mondadori
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