La crisi della narrazione di Byung-Chul Han

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Il filosofo coreano riflette sulla crisi della narrazione causata dai social network e le storie on line: l'uomo è sempre più solo e isolato

di Tiziana Pasetti

Trama – Lo storytelling toglie l’anima alla narrazione. La narrazione arricchisce la realtà donandole riflessione, emozione, tempo. Lo storytelling, al contrario, utilizza le strutture (ma solo quelle superficiali) della narrazione per fare in realtà informazione e fornire/iniettare in chi ascolta o legge le sue caratteristiche: arbitrarietà, finalità consumistiche, messaggi effimeri. Il capitalismo ha sempre puntato la sua attenzione verso un obiettivo: impadronirsi della vita e del pensiero delle persone, modellarne il desiderio, i bisogni. Per omologare le necessità e livellare il gusto c’è bisogno di una lobotomia di grande gruppo e di accordare poi tutti in base alla stessa nota. Un diapason assordante. Il passo, un saltello, dall’area dei consumi a quello politico è stato roba da principianti e lo storytelling è entrato nell’agenda formativa, e poi fiore all’occhiello dei curricula, di tutti. Quella di cui si serve l’informazione è una tecnica di comunicazione molto efficace, ben sperimentata: crea un mostro, crea uno sguardo dritto, crea sordità, toglie profondità anche alla propria esperienza di vita. L’informazione porta in superficie, rende l’intimità inutile perché invisibile. Han con chiarezza ci presenta questo percorso di impoverimento e di infiacchimento. La società ha bisogno di essere narrata con originalità e con originalità devono tornare ad esprimersi i singoli: recuperare la densità è necessario per dare un volto tramandabile e riconoscibile al nostro tempo.

Un assaggio – Anche i selfie sono fotografie che durano un istante. Essi valgono solo per un momento. Diversamente dalle fotografie analogiche, intese come medium del ricordo, non sono nient’altro che fugaci informazioni visive. Diversamente dalle fotografie analogiche, i selfie svaniscono per sempre dopo il breve lasso di tempo necessario per essere notati. I selfie non sono un supporto per il ricordo, ma sono al servizio della comunicazione. In definitiva essi annunciano la fine dell’essere umano inteso come un essere che porta con sé un destino e una storia. Il phono sapiens si immola al servizio del momento, delle «realtà momentanee quali le esperienze vissute che si succedono e dispaiono». «L’estensione dell’esistenza totale» che abbraccia la vita dalla nascita alla morte e che la anima dell’enfasi del Sé, gli è completamente estranea. L’esistenza del phono sapiens non è storica. I funeral selfie, i selfie di fianco al luogo di una sepoltura, non fanno che indicare la ricerca di una distrazione dalla morte. Accanto alla bara si guarda in camera sogghignando allegramente. Anche la morte è un mezzo per strappare qualche like.

Leggerlo perché – Nell’ottavo capitolo Han fa riferimento ad una scena originaria di guarigione evocata da Walter Benjamin, filosofo e sociologo tedesco, in una delle sue Immagini di pensiero: «Il bambino è malato. La mamma lo mette a letto e si siede vicino a lui. E poi comincia a raccontargli delle storie». Raccontare ha un potere di cura, un potere dovuto al rilassamento che l’ascolto provoca e alla fiducia che si instaura come un patto tra le parti. Saper narrare, narrare in modo pulito, la colonna che regge il mondo. Abbiamo tramandato tutto, narrando: le tradizioni, le religioni, i ricordi. Inserire una narrazione candida all’interno dell’informazione è una fantasia se non impossibile di certo molto difficile da realizzare. Già saper distinguere tra le due e trovare una zona franca è però un passo avanti. Lo stesso passo avanti che dobbiamo fare in relazione alle nostre, di narrazioni. Il racconto intimo e complesso della nostra storia non può essere relegato in una vetrina che si perde all’istante e che si confonde tra milioni di altre.

Byung-Chul Han, La crisi della narrazione, Einaudi

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