“Noi quando non eravamo in guerra ci preparavamo comunque a farla. E questo sempre. Non abbiamo mai vissuto in altro modo e, probabilmente, non ne siamo capaci. Neppure riusciamo a immaginarci un modo diverso di vivere e, chissà, forse un giorno dovremo impararlo, ma sarà una cosa lunga. A scuola abbiamo imparato ad amare la morte. (…) Tutto quello che sapevamo della guerra ci era stato trasmesso da voci maschili. Siamo tutti prigionieri di una rappresentazione maschile della guerra. Che nasce da percezioni prettamente maschili. Rese con parole maschili. Nel silenzio delle donne. Nessuno, tranne me, ha mai chiesto niente a mia nonna, a mia madre. Tacciono perfino quelle che sono state al fronte. Se pure all’improvviso cominciano a ricordare, non raccontano la loro guerra femminile ma quella maschile. Si adattano al canone invalso. E solo in casa o, piangendo, nella cerchia delle proprie amiche veterane, si mettono a narrare la propria guerra. A rivelarla. Ed è una guerra sconosciuta. Non solo per me, ma per tutte noi”.
Un milione di donne, a partire dal 22 giugno 1941, scese in campo per integrare le perdite di effettivi nell’esercito sovietico. Giovanissime, avevano tra i 18 e i 19 anni, si ritrovarono al fronte per scelta, con lo scopo di difendere la loro patria e opporre la forza della loro giovinezza, ricca di ideali e sfrontato coraggio, all’avanzata di Hitler. La narrazione di guerra, la letteratura che intorno ai fatti bellici ha costruito un genere quasi specifico con caratteri fissi con la donna quasi sempre nel ruolo della portatrice di pace, in equilibrio stabile su ideali universali, è una narrazione fantasiosa, strumentale. La stessa giornalista e scrittrice nata nel 1948 in Ucraina, vincitrice nel 2015 del Premio Nobel, quando decise di indirizzare la sua ricerca proprio verso la testimonianza femminile del conflitto, rimase sorpresa: i ruoli che le donne avevano assunto non erano i classici, l’infermiera, la cuoca o la radiotelegrafista. Le donne si erano arruolate come soldati di fanteria, come genieri sminatori, come aviatrici, come addette alla contraerea e carriste, come tiratrici scelte.
Il metodo di Svetlana è noto: ascolto in profondità. Dopo decine di anni dalla fine del conflitto le donne soldato hanno parlato. Dopo gli anni della censura che a questo lavoro aveva detto no, l’arrivo del grande cambiamento sovietico ha permesso la pubblicazione di questo documento scomodo e necessario: le donne raccontano la loro guerra, la loro storia. E in guerra le donne hanno ucciso, hanno ucciso uomini, altre donne, hanno ucciso bambini. Lo hanno fatto riconoscendo in loro stesse una scaltrezza che spesso gli uomini non avevano. Oltre 400 pagine di testimonianze, di nomi e cognomi, di confessioni da film dell’orrore. Pagine che la stessa giornalista ha confessato di aver fatto fatica a pubblicare. Pagine che soprattutto in questi giorni è necessario leggere per non cedere alla retorica, alla semplificazione, all’agiografia. Pagine che ci aiutano anche a conoscere lo spirito di un popolo, con una cultura e un approccio alla vita, alla guerra, diverso dal nostro, diverso da chi è nato e cresciuto in una democrazia, diverso da chi ha conosciuto solo tempi di pace e prosperità e ampi spazi di libertà.
“Io conducevo un autocarro, trasportavo casse di proiettili d’artiglieria e sentivo i crani dei morti tedeschi, sparsi dappertutto, schiantarsi sotto le ruote. Il crepitio delle ossa. E ne ero contenta”
“In nessun’altra situazione, salvo forse l’amore, l’essere umano rivela così tanto di se stesso come in guerra”.
Svetlana Aleksievič, La guerra non ha un volto di donna, Bompiani
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