“Quando vedo del sangue macchiarmi le cosce non ho moti di stizza o tremori, vado decisa da Antonia con la mutanda in mano e a sedere scoperto, le chiedo che fare. Lei mi porta in bagno, tira fuori i suoi assorbenti, ne scarta uno e me lo sistema su un paio di mutande pulite, apre le alette, lo fa aderire, mi spiega che da oggi in poi dovrò compiere questo rito per molti anni. Mi fa vedere dove tiene quelli che ora sono i nostri assorbenti, li divide in tre gruppi: i più scuri per i primi giorni, i violetti per quando sentirò meno dolore e i rosa per la fine, se perderò poco. Se il sangue è troppo tu devi venirmelo a dire, se il sangue non arriva tu devi venirmelo a dire, se a scuola hai mal di pancia forte ti devi fermare, se ti cala la pressione, se ti gira la testa va’ a metterti a letto. Devi sempre lavarti, ripete, anche se ti impressioni, fa’ sempre la doccia, usa sempre il bidet, lava subito mutande e lenzuola, altrimenti resta la macchia. Ma la cosa più importante è che questa cosa ti riguarda, tu te ne devi occupare, sta’ attenta coi maschi, anche quando dicono di fidarti, anche quando sembrano capire, loro non capiscono, sappi che puoi fare figli d’ora in poi e non farli è affare tuo. Non finire come me, a diciassette anni ho avuto Mariano da un tipo soprannominato Tony che ancora sta scontando in carcere una condanna per omicidio. Mariano lo sa? chiedo io. No, e non lo deve sapere”.
Gaia è la secondogenita di Antonia Colombo, la Rossa. Ha un fratello maggiore, Mariano, e due fratelli minori, gemelli, anche loro figli di Massimo, suo padre. Massimo, suo padre, faceva il muratore nei cantieri, a nero. Un giorno è caduto da un’impalcatura, si è spaccato la schiena. Vive, sbuffando e bestemmiando, su una sedia a rotelle che la madre Antonia è riuscita a recuperare lei solo sa dove. Gaia è cresciuta in uno scantinato, poi un giorno i servizi del comune di Roma li hanno fatti spostare in un appartamento a corso Trieste. Poi un giorno Antonia ha detto a Gaia ‘vieni con me’ e hanno preso un treno. Sono scese al lago. E al lago sono andate a vivere, insieme a tutta la famiglia, padre senza gambe, gemelli e il fratello per metà. Gaia racconta la sua storia, racconta i suoi giorni, racconta sua madre, racconta un ambiente, racconta la scuola, l’amicizia, racconta il giro di boa: una mattina Alessandro, un compagno di scuola che la prende sempre in giro e che la chiama ‘Orecchie’ le distrugge l’unico oggetto nuovo che lei abbia mai posseduto, una racchetta da tennis. Gaia, abituata a sopportare in silenzio, alza l’armatura della racchetta e più volte, con forza, colpisce fino a spezzarlo il ginocchio del ragazzo. Gaia decide che è il momento di diventare cattiva. Siamo solo a pagina 62. Il resto lo lascio scoprire a voi.
Se mi è piaciuto? Insomma. Troppa forzatura lessicale (“Io sono cera e candela, rimango spenta e in bilico sul candelabro”). Però poco importa. Io l’ho letto perché avevo voglia di tornare in quel posto. Avevo voglia di Trevignano, del lungolago. Lì c’è un piccolo chalet di legno, dentro c’è un letto, un poster che raffigura un bosco, un camino. C’è una pizzeria, a pochi metri. Ci sono dei ricordi di giorni miei assurdamente perfetti, lì. C’è una promessa rimasta in attesa.
Il romanzo della Caminito ha vinto, con 99 voti su 270, la cinquantanovesima edizione del Premio Campiello, votata da una giuria popolare di Trecento Lettori Anonimi presieduta da Walter Veltroni.
Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce, Bompiani
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