di Tiziana Pasetti
Trama – Dalva e Venâncio si amano, si amano in modo totale e viscerale. Non esiste nulla oltre il loro insieme. Fino a quando qualcosa porta via lo sguardo di Dalva, lo distrae da Venâncio: un altro uomo? La passione sfamata e ormai addomesticata? No, un figlio, il loro bambino. Venâncio già non tollerava quel ventre pieno (“dentro quella pancia cresceva un ladro destinato a portargli via la donna della sua vita”) che allontanava i loro corpi anche se abbracciati, quando vede la bocca del bambino, suo figlio, spalancata per afferrare il capezzolo materno, quello che fino a poco prima è stato strumento di piacere, perde la testa, afferra il bambino, lo scaglia lontano e per poco non uccide Delva, la donna che ama, di botte, “ancora e ancora”. Lucy fa la puttana, la sua è una scelta, una voglia un battesimo ricevuto da Brando, il marito di zia Duca (“Non esiste uomo qui in città che tu non possa avere. Impara a non restare incinta, quanto al resto, direi che ci sei nata”). È la più bella, la più desiderata del bordello. La più sboccacciata, sfacciata. La più elegante e innocente: diventiamo crescendo la risposta ai nostri dolori antichi. Venâncio non la vuole, allontanato da Dalva frequenta quella casa chiusa e le prende tutte, le donne offerte, tranne lei. E Lucy perde la testa per quell’uomo neanche piacente che la allontana. La allontana fino a quando la donna non compie un gesto che ricorda a un Venâncio svuotato e disperato sua moglie. E chi ci ricorda chi amiamo e non riusciamo ad avere più diventa un ponte, una nave, un’illusione tattile, per raggiungere una parvenza di pace.
Un assaggio – Le labbra di Venâncio si posarono su quelle di Dalva come mille farfalline bianche. Si staccavano appena, poco più di un niente, e poi si riaccostavano a lei in un calmo andirivieni che li cullò, aumentando a poco a poco la voglia di restare appiccicati. Le lingue si toccarono lievi, si allontanarono timide, si abbandonarono a un gioco di passi di danza in comune, esplorarono il contorno delle bocche, sfiorarono le perle dei denti, vinsero ogni distanza, riconobbero la rispettiva consistenza e ci presero gusto. L’uno bagnava l’altra della sua bocca buona, l’acqua era dentro l’altro, in quel primo bacio da fermare il mondo. Gli occhi restavano chiusi, in calda oscurità. Le mani sui capelli spettinati, carezzevoli sulle guance arrossate dal calore interno. Siamo nati per cose come queste. Chi si sofferma in questi sentimenti ne esce tramutato. Diverso. Impara la forza di esistere. Dopo il primo bacio ne vennero altri. I corpi si volevano ancora più vicini, fino a perdersi nell’abbraccio. le mani scoprivano la pelle, ne imparavano i rilievi. I boschi. Le grotte. Un fiume ampio e profondo, dalla corrente placida, purificava tutto, fertilizzava i giorni, bagnava le aridità, scorreva in mezzo a dislivelli, rapide, anse. Sicuro, un giorno, di diventare mare. L’amore, quando nasce forte, ha fretta di diventare eterno. Non considera di essere fatto di carne madida.
Leggerlo perché – La fortuna di questo romanzo è nata da un passaparola che ha portato le poche copie stampate all’inizio a raggiungere quota mezzo milione, rendendo la Madeira l’autrice brasiliana più venduta. Una scrittura sguinzagliata, priva dei legacci della nuova censura che sta mortificando la libertà della letteratura. Il poco che ho anticipato nella trama non risolve la complessità della storia: violenza, sottomissione, paura, istinto, passione, dolore, amore, tenacia, lutto, menzogne, ritorni e poi il silenzio, quel silenzio che allontana e allo stesso tempo unisce le persone. Il volto senza trucco e senza filtri o ritocchi della letteratura sudamericana al meglio.
Carla Madeira, L’amore è un fiume, Fazi Editore
Traduzione dal portoghese di Daniele Petruccioli
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