“Si presentano mogli e mariti, e loro li guardano senza riconoscerli. Alcuni piangono, tutti provano sollievo. Un peso in meno. Ma questi amanti…essere alla costante ricerca di qualcuno, innamorarsi, regredire e restare inchiodati alla fase più miserabile della vita. Che Dio mi risparmi di vivere di nuovo tutto questo. Solo due volte sono stata così stupida. C’è stato James. E poi c’è stato l’altro. È finita male, ovvio. E come poteva andare diversamente? La sua faccia giovane e offesa. Il suo sentirsi defraudato. Ora avrà quasi cinquant’anni, è strano pensarci. Dieci anni meno di quelli che avevo io allora. Non mi è mai interessato sapere come se la passasse dopo che ci siamo lasciati. Presumo bene, la vita è facile per chi ha la bellezza. Ma non fu la sua bellezza ad attrarmi. Fu la passione per il bisturi. Mi dava i brividi. Stringeva il manico come fosse la mano di un’amante. Aveva la passione, il desiderio, ma gli mancava il talento. Mi faceva pena. Poi la pena si trasformò in qualcos’altro. Non ho mai usato la parola amore. Non potevo paragonarlo a quello che provavo per James. Ma era anche diverso da tutto il resto. E questo significa qualcosa. Quando si pensa alla propria vita, sono gli estremi che spiccano. Picchi e valli. Lui è stato una serie di picchi vertiginosi. In un certo senso, più di quanto lo sia stato James. Se James è stato la grande montagna al centro del paesaggio della mia vita, l’altro è stato una vetta di altro genere. Più alta, più affilata. Sui suoi fragili fianchi non si poteva costruire. Ma la vista era spettacolare”.
Jennifer ha un’età imprecisata. Un giorno ha 18 anni, un giorno 70. Un giorno è sposata con due figli piccoli e un marito avvocato. Un giorno è vedova. Un giorno è bambina. Un giorno è al tavolo operatorio, con il bisturi stretto fra le dita. Un giorno parla con Amanda, la sua amica del cuore. Un giorno con i detective che la interrogano: c’è stato un omicidio, hanno trovato il corpo di Amanda, e chi l’ha uccisa le ha tagliato via quattro dita da una mano, tutte tranne il pollice. Jennifer, chirurgo ortopedico, ha l’Alzheimer. Tutto quello che Jennifer racconta in questo sfogo narrativo può essere vero o – come sempre accade quando la spirale della demenza afferra e trascina via la mente – falso, costruito, inventato, distorto, temporalmente sfasato.
Ho trovato questo libro nel reparto outlet di un supermercato. Impolverato, il prezzo di vendita era al 70% del costo originario, praticamente un passo prima del macero. Aveva una copertina bella, quindi l’ho preso per dare uno sguardo dei miei: i libri alla deriva sono una calamita, per me. Ho letto la prima pagina. La seconda. L’ho portato via con me.
Jennifer racconta. E insieme alla sua voce si incastrano altre voci, quella dei due figli, quella della donna che la tiene d’occhio prima che venga il momento di essere ricoverata in un istituto idoneo. I ricordi arrivano veloci e forti come una tempesta tropicale, il presente è afoso, lento come un pomeriggio d’agosto. Jennifer racconta l’amore e tutte le sue strade: quelle diritte (poche), quelle secondarie (molte), quelle nascoste (abbastanza). Jennifer racconta. O forse no. Forse è solo persa in un mondo accanto, che a tratti incontra ancora – strade comuni esistono e insistono – questa parte di Universo.
Un libro magistrale.
Alice Laplante, Non ricordo se ho ucciso, Fazi
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