Poveri ma belli di Marta Boneschi

Leggi con noi
Ascolta la storia

Chi erano gli italiani che avevano votato per la Repubblica? Com'erano usciti dalla guerra? Una ricostruzione minuziosa dell'Italia Anni 50

Nell’Italia degli anni Cinquanta non è consentito cambiare città. Vigono ancora le leggi contro l’urbanesimo promulgate ai tempi del Duce, che preferiva un’Italia rurale e un popolo stanziale. La legge del ’31, per esempio, disciplina le migrazioni; il decreto del ’36 impone un’autorizzazione speciale agli operai che si spostano da una provincia all’altra per lavoro e infine la legge del ’39 inibisce lo sviluppo urbano. Non è tutta colpa del fascismo, anche la socialdemocrazia dà il suo modesto contributo: nel ’47 il ministro Giuseppe Romita invita con una circolare i prefetti e i questori a vigilare «sui trasferimenti dei prestatori d’opera». La mobilità interna è proibita per legge, ma la speranza non ferma il cammino. In campagna c’è da patire la fame, almeno all’inizio. In città si lavora, ma non c’è da stare allegri: a Milano, Roma, Genova, Napoli il paesaggio è costellato da cumuli di macerie, il sovraffollamento delle abitazioni è impressionante e ogni spazio libero è coperto da baracche o da ricoveri più o meno improvvisati, tanto per i nuovi arrivati quanto per i senzatetto dei bombardamenti. A Milano le chiamano «case minime»: ricoverano fino a 11 o 12 persone. Milano, tuttavia, è la metropoli più civile: quasi tutte le abitazioni dispongono di luce, acqua e gas; più di una su quattro – e questo è davvero un primato nazionale – possiede un bagno. A Roma è molto peggio: nel ’51 la città conta 1,7 milioni di abitanti ma a metà del decennio se ne è aggiunto un altro mezzo milione. Centomila romani, di nuova e vecchia data, vivono in baracche, cantine o grotte”.

Chi erano gli italiani che al referendum postbellico avevano votato (forse) per la Repubblica? Come erano usciti dagli anni della guerra, con quali nuove abitudini, quali nuovi desideri, quali cicatrici?

Marta Boneschi, che della liberazione dell’indagine storiografica contenuta e compressa nelle poche informazioni che passano nelle pagine degli aridi manuali scolastici ha fatto un mestiere, grazie ad un lavoro di ricerca certosino ha ricostruito in ogni minimo particolare il clima di un’epoca ricca di fascino e mistero.

Nell’immaginario collettivo gli anni ’50 rappresentano solo colore, gonne ampie, vacanze romana, divi hollywoodiani a spasso lungo via Veneto, le trasmissioni televisive che riunivano famiglia e amici nelle sale e nei cortili, le balere, hit musicali indimenticabili. Davvero ben poco se si pensa ad un paese in ricostruzione ancora pieno di problemi geopolitici (basti pensare alla condizione di Trieste e dei profughi giuliani e dalmati), confusione nella realizzazione di un nuovo programma scolastico aderente al superamento della dottrina e della pedagogia fascista, impreparazione nell’equilibrare la nuova domanda di lavoro proveniente dalle donne (durante la guerra queste avevano imparato a sostituire gli uomini impegnati al fronte in tutte le mansioni, anche le più pesanti, e avevano appreso che essere donna non era sinonimo di fragilità, che essere donna non era una condanna a ruoli inappellabili e irreversibili, che la pace non doveva comportare il loro ritorno automatico nel ‘carcere’ delle mura e delle dinamiche domestiche).

Quella di Poveri ma belli (e di tutti i saggi della Boneschi) è una lettura scorrevole anche se minuziosa, curiosa, utile. Per molti può essere una bella occasione per recuperare ricordi lontani, per tutti può rappresentare invece un approccio alla nostra storia, alle sue tante incongruenze, al suo – così lontano dal mito, eppure così necessario – principio di realtà.

Marta Boneschi, Poveri ma belli, Mondadori

Confidenze