“Al contrario di mia madre ho sempre capito l’appagamento che il possesso dei libri dava a mio padre e il sogno che nascondevano. Nella libreria c’era anche tutta una serie di libri random che ci erano stati regalati a Natale da cugini e vicini di casa, titoli scelti senz’amore il giorno prima della Vigilia in una FNAC piena di gente. Anch’io ero corsa alla FNAC vicino alla stazione Saint-Lazare un 23 dicembre prima di prendere il treno. Anch’io mi ero detta «Massì, andrà bene», proprio come per i cugini o i vicini, benché si trattasse di mio padre. A volte facciamo le cose senza premura, e poi è troppo tardi, le persone sono morte. Che idea, oltretutto, regalargli Menù giapponesi per due quando ormai era solo. Sembrava la promessa di una cenetta di sushi fra noi, e non l’avevo mantenuta. Come tante altre. Vederlo mi ha rassicurata. Era lì disteso, lungo e sereno. Ho posato le labbra sulla sua fronte, con cautela, perché avevo paura di restare sorpresa dal freddo, o anche che reagisse al contatto e spalancasse gli occhi di colpo per effetto della magia dell’amore. Niente di tutto ciò. La consistenza della pelle era sempre la stessa, ho constatato con stupore. Era gelido, tutto qui. Le sopracciglia e i capelli brillavano sotto la luce, coperti di lacca e brina perché era appena uscito da un cazzo di frigorifero. Sono certa che se avesse potuto ci avrebbe scherzato sopra. Mi sono avvicinata a mio fratello, che lo osservava in silenzio con le mani incrociate dietro la schiena. Dopo un po’ ha detto: «Ci ha rotto il cazzo per tutta la vita». Non ho detto nulla e gli ho stretto la mano”.
Il racconto autobiografico di Anne Pauly comincia dall’inizio della fine: sono le 11 di sera e Jean-Pierre è morto da poche ore. Anne è in macchina con suo fratello Jean-François, hanno appena lasciato l’ospedale, e nel bagagliaio hanno caricato due bustoni del Carrefour nei quali hanno infilato una gamba artificiale, un gilet beige, alcune magliette, delle mutande e una scatola dello zucchero con disegnati sopra dei piccoli bretoni in costume nella quale, al posto dei medicinali, sono stati messi un crocifisso tascabile, una medaglietta della Vergine, un rosario tibetano e un piccolo Buddha di corno. Jean-Pierre era il loro papà.
Come si reagisce al lutto di un genitore? Quali sono le cose opportune da provare, da dire? E quanto tempo abbiamo a disposizione prima che tutto – ricordi, rimpianti, dolori, giorni del tempo vissuto insieme – sfugga via? Nelle parole di Anne Pauly non ci sono risposte definitive, non ci sono i ruoli codificati da certa, tanta, letteratura buonista e consolatoria. Jean-Pierre è stato un uomo un po’ ok e un po’ no, un marito forse decisamente molto poco umano, un padre a seconda dei momenti e del Momento, un individuo attratto dallo spirito e spesso schiacciato dalle decadenze opera della civiltà, del Sistema, occidentale. Jean-Pierre ha impersonato più ruoli, come tutti: Anne l’ha conosciuto e giudicato in quello di padre e di forse pessimo marito. I preparativi per il funerale le danno un’occasione per conoscerlo davvero: tra le sue cose, tra i suoi libri, tra le lettere, c’è un Jean-Pierre inedito a sua figlia. C’è una storia che racconta qualcosa di più sottile.
Prima che mi sfugga si legge tutto d’un fiato, si legge in avanti e poi tornando indietro, si legge frenando di botto rischiando uno schianto davanti a un tornado di lacrime e raffiche di risate che ti fanno precipitare gli occhi e lo sguardo verso un’altra storia, la tua, verso un altro padre, il tuo.
Anne Pauly, Prima che mi sfugga, L’Orma
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