“Yelena mi racconta di Anya che, anni fa, era estate, è stata colta di sorpresa da un acquazzone nella città di Energodar, dove c’è una centrale atomica. Tornata a casa ha fatto una doccia e si è occupata delle faccende domestiche, poi è andata a letto. Si è svegliata ed era praticamente calva. I suoi capelli sul cuscino. I dottori dicono che la roba che era nell’aria, dispersa dalla centrale, con l’acqua, ha fatto reazione. Aveva 30 anni, Anya. Elena non l’ha più vista, non sa se è ancora viva. Le persone di città come Energodar o Chernobyl hanno divieto di parlare di quello che succede lì. Questo divieto, di sovietiche origini, oggi rimbalza ovunque, per i quattro angoli di quello che fu l’impero comunista. Me ne accorgo presto. Indipendenza o meno, spesso gli ucraini di questa parte geografica si definiscono ‘russi’. È come se le radici di quella che è stata l’Unione Sovietica, la Sovetsky Soyuz, fossero ancora vive e palpitanti. Un immenso territorio abitato da usi e convenzioni che sono sopravvissuti, incrostazioni di un passato che non vuole estinguersi. Basta grattare un poco e sotto la riservatezza sovietica senti scorrere la voglia di essere ascoltati. Io mi sono trovato lì nei giorni in cui ricorreva il ventennale della caduta del muro di Berlino. Ho teso l’orecchio ad ascoltare le storie e ho deciso di disegnarle”.
Nel settembre del 2008 Igor Tuveri parte per un lungo viaggio. Destinazioni, la Russia e l’Ucraina. Il progetto che il fumettista ha in testa è quello di realizzare un libro sulle case in cui ha vissuto Čechov, a partire dalla Beleya, la bianca dacia in Crimea. Arrivato in quei luoghi, però, lo sguardo di Igort viene catturato dalla realtà che sfacciatamente, e segretamente, gli si rivela. Quella Terra zitta nasconde troppe parole, troppe storie, troppe verità. I quaderni che Igort aveva portato con sé si riempiono di schizzi, di volti, di parole: le strade sono piene di qualcosa che non può essere lasciato lì. “La mia scelta è stata quella di vivere non negli alberghi ma nelle case: ho preso in affitto più case in Ucraina che nel resto del mondo in tutta la mia vita. Vedevo le cose succedere intorno a me: l’epidemia delle angurie, l’epidemia delle uova. E poi l’acqua infetta oppure il tè che puzzava e allora impari che in certi casi è meglio farlo con l’acqua minerale, insomma cerchi di evitare delle cose alle quali il viaggiatore – turista – non è abituato. Mi ricordo l’inverno in cui hanno razionato il gas e nelle città ucraine c’era ogni giorno il bollettino dei morti. Oppure i quartieri con l’elettricità a turno, alcune vie un giorno e quello dopo no”.
In questi giorni ucrainocentrici, giorni di parole e slogan, giorni di grande confusione in cui tutti ci perdiamo dietro informazioni di massa e mediate da posizioni politiche e di ‘assi’, leggere un’opera di giornalismo grafico eccellente come quella di Igort, resoconto di un viaggio durato quasi due anni, può fare luce sulla nostra ignoranza. Le voci che conosceremo hanno un volto, in queste pagine. E le storie, i ricordi, incontrano un tratto allucinato e indimenticabile. La carestia che ha ucciso tra il 1932 e il 1933 un quarto della popolazione ucraina, carestia causata non da sofferenze ambientali ma dalla disposizione del governo centrale guidato dal Padre della Patria, Iosif Stalin, di cancellare la classe dei kulaki, i possidenti (per esserlo bastava anche solo avere due mucche) che non aderivano volontariamente all’opera di collettivizzazione. Le frontiere ucraine furono chiuse, la circolazione fra regioni interdetta e a ogni contadino fu requisito l’oro che rende quel paese così appetibile per tutti: le riserve di grano.
Il racconto di quegli anni da parte dei protagonisti del reportage, uomini e donne che a quei tempi erano bambini, sono raccapriccianti, lontane da ogni letteratura compassionevole: “Distretto di Vysokopolsk. Il capo del dipartimento regionale, Krauklis: il 16 febbraio, a Zagradovka, è morto il giovane Nikolay, 12 anni, nella famiglia di un contadino povero. La madre F. e la sua vicina S. hanno tagliato a pezzi il cadavere e lo hanno servito con il cibo che si era preparato. La quasi totalità del corpo è stata consumata. Non restava che la testa, i piedi e una parte della spalla, un palmo della mano, la colonna vertebrale e qualche costola. In questi tempi abbiamo notato una recrudescenza di casi di necrofagia e cannibalismo”.
Igort, Quaderni ucraini, Rizzoli Lizard
Ultimi commenti