“Quand’ero soldato non mi mettevo volentieri sull’attenti davanti ai generali. Mi sembravano vanitosi tromboni. Oggi, al cospetto di Jovan Divjak mi scopro a farlo con piacere. (…) Lui, serbo da quarant’anni in Bosnia, non ha avuto dubbi, al momento dell’aggressione alla sua terra adottiva. (…) Sono passati tanti anni ormai, ma non uno dei problemi di allora è stato risolto. Il potenziale dell’area è rimasto intatto. Ma il peggio è che non abbiamo risposto a nessuna delle domande scomode sulle nostre responsabilità in quel conflitto nel cortile di casa nostra. (…) Che vuoi che ti dica, compagno Divjak. L’unica cosa che ci resta è l’amore per questa straordinaria terra e per questa città unica al mondo che tu hai difeso con onore e che continui ad onorare occupandoti degli orfani di guerra. Posso dirti che ti ringrazio per quello che hai fatto e che fai, ignorando i briganti oggi al potere. Dirti che amo ancora quel luogo come se l’avessi lasciato ieri. Ci torno, e il tempo è come se non fosse passato. Per me è tutto come allora, quando la vidi la prima volta sotto la Luna, sotto le ultime nevi dell’Igman. Era aprile, il fiume scrosciava nella gola, e i primi spari echeggiavano proprio mentre lei si svelava ai miei piedi, in fondovalle, luccicante, bella, inerme e indifendibile, città femmina, Grande Signora della notte, perfetto luogo-rifugio – Saraj, serraglio – che mi accoglieva. Dieci anni dopo, il secondo dei miei figli, scoprendo Sarajevo mi scrisse – di fronte a quella stessa favolosa visione – un breve messaggio: «Ecco, papà, ora capisco perché questo luogo ti portava via da me». Che la Bosnia viva. Sempre”.
Oggi, 11 luglio 2020, il mondo intero dovrebbe tacere e osservare non un minuto ma l’intero giorno al silenzio, alla riflessione, alla pretesa della verità (perché l’Onu ha di fatto abbandonato l’enclave?). Sono passati venticinque anni dalla strage di Srebrenica: 8000 uomini fra i dodici e i settantasette anni, quasi tutti bosgnacchi (bosniaci appartenenti alla comunità di cultura musulmana), furono sterminati dalle truppe comandate dal generale serbo Ratko Mladi.
Lo stesso Mladi che fino a poche ore prima si era fatto riprendere dalle televisioni mentre distribuiva caramelle ai bambini e rassicurava le mogli, le madri: “non vi accadrà nulla”. Nella lingua del serbo ‘nulla’ era equivalente ad un colpo di mitra, ad una sepoltura anonima nelle fosse comuni dei loro mariti, dei loro padri, dei loro figli.
Ho scelto le parole dell’introduzione di Paolo Rumiz a questa intervista della giornalista Florence La Bruyere al generale Jovan Divjak perché furono proprio gli articoli del triestino a ‘ferirmi’, un colpo d’amore e dolore, il cuore nel 1992. Di Balcani non sapevo nulla, come molti. La guerra era un servizio al telegiornale fra i tanti. Da allora è stata passione assoluta, per un popolo, per un luogo, per uno scrigno di culture. La Bosnia è la cassa toracica del vecchio continente, è una porta tra Oriente e Occidente, è la chiave scomoda degli equilibri diplomatici. Sarajevo ne è l’Anima violata e violentata, ancora oggi prigioniera. È il luogo che – basta uno sguardo – ti porta via.
Jovan, militare serbo, ha scelto la Bosnia, ha scelto di restare a difendere la giustizia e non la bandiera. Nel 1994 ha fondato l’associazione “L’educazione costruisce la Bosnia Erzegovina” per aiutare gli orfani di guerra. In questa lunga intervista nessuna pagina del lungo conflitto, dell’assedio, delle alterazioni di significato, della responsabilità dell’Europa, è tralasciata. Un uomo giusto.
Onore a Srebrenica. Che la Bosnia viva, sempre.
Jovan Divjak, Sarajevo, mon amour, infinito edizioni
Ultimi commenti