Sociologa, scrittrice e scultrice, Silvia Di Natale ha dedicato il suo ultimo romanzo, “Una donna nell’ombra” (Clichy), alla vita di Gina Lombroso Ferrero (1872 – 1944), figlia del celebre psichiatra Cesare Lombroso (1835-1909). Abbiamo parlato con lei di questa scelta e del fascino di una figura oggi dimenticata.
Come mai hai scelto Gina Lombroso?
«Un’amica mi ha incuriosito parlandomi delle memorie di Gina, ancora “sepolte” nell’Archivio Vieusseux a Firenze. Eravamo in piena pandemia e l’archivio aveva ridotto il suo orario di apertura al pubblico e moltiplicato le difficoltà di accesso ai documenti. Le memorie di Gina erano tenute sotto chiave: prima di consultarle ho dovuto sottoscrivere che non ne avrei fatto delle copie e che non avevo l’intenzione di pubblicarle. L’atmosfera di mistero che le circondava non ha fatto che attizzare la mia curiosità. Quando ho finalmente avuto tra le mani il dattiloscritto – con correzioni fatte a mano in una scrittura molto minuta – ho scoperto che si trattava di annotazioni, più che di un testo completo, per giunta molto discontinue: più sviluppati alcuni episodi che riguardavano l’infanzia, mentre, man mano che si procedeva, il materiale si riduceva a poche frasi o addirittura a qualche parola. Insomma, le memorie di Gina erano degli appunti non pubblicabili; come biografia erano incompleti, visto che arrivavano solo fino alla data in cui Gina e il marito, perseguitati dal regime fascista, lasciavano l’Italia per trasferirsi a Ginevra, e cioè al 1930. Da quella data Gina non annota più niente. Come mai, mi sono chiesta, Gina, che ha dedicato tanto tempo a occuparsi degli scritti del padre e ha pubblicato, e in parte rifatto, i testi lasciati incompiuti dal figlio Leo – morto a trent’anni nel 1933 – non ha trovato tempo per scrivere le sue memorie? L’ho capito leggendo: a trattenerla non è stata la mancanza di tempo, ma una reticenza dovuta a una sorta di pudore.
Cioè che non volesse esporsi troppo?
«Gina nelle sue memorie ha rivelato la sua anima più nascosta, forse per questo motivo non le ha pubblicate, anzi, chissà, non aveva mai avuto davvero l’intenzione di renderle pubbliche. L’ha trattenuta il timore che le sue rivelazioni potessero dispiacere a qualche persona a lei vicina, per esempio alla sorella Paola. Paola non era a conoscenza del fatto che suo marito, Mario Carrara, allievo del padre e poi medico famoso, avesse prima ancora che a lei fatto la corte alla sorella. Gina, quando scopre che Paola è innamorata di lui, rinuncia al suo amore. È lei stessa a scrivere quanto le sia costata questa rinuncia. Gina matura rimpiange apertamente una scelta che a suo tempo le era sembrata tanto nobile: il sacrificio che ha segnato la sua vita ha infatti guastato i rapporti con la sorella che fino ad allora era stati molto stretti. Un altro motivo per cui Gina non ha terminato le sue memorie è forse la franchezza con cui parla del suo matrimonio. Dopo dieci anni di fidanzamento Gina sposa lo storico e romanziere Guglielmo Ferrero senza essere sicura di amarlo, anzi, è convinta di commettere un errore, ma non sa rifiutarlo. Perché avrebbe dovuto fare conoscere ad altri questi aspetti così intimi del suo matrimonio?».
Nel romanzo, dove hai ricostruito la sua vita, è molto chiaro che il matrimonio con Guglielmo Ferrero non è certo un’unione appassionata…
«Infatti. Gina è cresciuta nell’ombra del padre, all’epoca un intellettuale famosissimo. Cesare Lombroso era un uomo empatico, socievole, creativo, fantasioso e anche molto liberale, che lasciava alle figlie – e ai figli – la più completa libertà di amare chi volessero. Fin da bambina Gina gli fa da assistente nel suo lavoro, ma non soltanto: tutta la sua vita gravita attorno a quella del padre. Le esigenze del padre vengono prima di tutto, anche prima del suo matrimonio. Quando accetta di sposarsi, Gina lo fa a condizioni che, di nuovo, privilegiano il rapporto con il padre: non cambiare casa e non intralciare le abitudini del “sistema Lombroso”. Guglielmo Ferrero è un intellettuale freddo, rigido, con il quale Gina ha soprattutto un rapporto cerebrale; solo con gli anni il loro matrimonio si equilibra, anche se Gina non smette di restare nell’ombra del marito.»
In che senso una donna così abituata a stare un passo indietro può parlare anche a noi?
«L’ho trovata interessante perché non è un’eroina, come lo era la socialista Anna Kuliscioff, per esempio, né una pioniera come Maria Montessori. Gina pensava che lo scopo della sua vita fosse dedicarsi alle persone che amava, un atteggiamento che riteneva propriamente femminile. In polemica con chi proclamava e pretendeva l’emancipazione, Gina sosteneva che le donne devono seguire la loro natura “altruista”. Sarebbe sbagliato rinunciare a questa “vocazione” solo per imitare a tutti i costi gli uomini. Non tutti sono portati ad agire sul palcoscenico, ma non per questo le tante persone (la stragrande maggioranza) che lavorano nell’ombra e che permettono alle poche che stanno sotto i riflettori di svolgere la loro attività sono meno importanti. La posizione di Gina è interessante perché il significato dell’emancipazione femminile viene ancor oggi spesso frainteso: emanciparsi significa uscire da una condizione di subordinazione, di mancanza di autonomia, di limitazione delle proprie scelte di vita, ma non implica la rinuncia al ruolo di madri e amministratrici della propria casa, se è questo che si sceglie consapevolmente.».
Infatti Gina era anche molto attiva, no?
«Certo, Gina è un’intellettuale che scrive articoli e libri, ma già nella prima giovinezza si interessa alla realtà sociale che la circonda. A diciannove anni svolge un’inchiesta a Torino per conoscere le condizioni in cui vivono i lavoratori delle ferrovie; per farlo si serve di formulari da lei stessa progettati e del metodo statistico, per quei tempi un’inchiesta rivoluzionaria. Gina è soprattutto una donna pratica che si occupa di attività culturali, organizza conferenze e gestisce un salotto frequentato da personalità di spicco. A Ginevra, dove lei e il marito si rifugiano per fuggire al regime fascista, allarga la sua rete di appoggi per accogliere i profughi italiani. Però Gina aveva il difetto che hanno molte donne, anche ai nostri giorni: tendeva a sottovalutarsi. Temeva di non essere capace, di aver bisogno dell’appoggio di un uomo anche per pubblicare, e soprattutto si autoimponeva obblighi che nessuno le aveva dato. Doveva arrivare alla maturità per capire che questa sua tendenza le impediva di uscire dall’ombra e rendersi autonoma.».
Avrebbe potuto fare di più?
«Gina preferisce rinunciare ai suoi desideri piuttosto che arrecare un dispiacere a qualcuno. Un esempio di questo suo modo di agire è la sottomissione con cui accetta di studiare lettere, una facoltà che non le piace, per non dispiacere alla madre che considerava disdicevole per una ragazza studiare medicina, come invece avrebbe voluto Gina. Solo dopo essersi laureata in lettere riuscirà a imporre la sua volontà e studiare medicina. Insomma, è una figura contraddittoria, che all’inizio non riuscivo bene a decifrare. Mi sembrava troppo sottomessa, troppo modesta, troppo buona…. Solo più tardi, scrivendo le sue memorie ho capito che dietro tanta sottomissione, tanta modestia e tanta bontà si nascondeva un carattere forte e che se Gina aveva rinunciato a molte sue ambizioni l’aveva fatto non per mancanza di attitudini, ma per eccesso di amore. Non è un atteggiamento ancora comune a molte di noi, anche oggi?».
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