Una madre di Colum McCann (con Diane Foley)

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Un tributo a un grande giornalista che andava nei luoghi dove le cose accadono e che ha perso la vita per mano dell'Isis

di Tiziana Pasetti

Trama – 19 agosto 2014. Sono trascorsi due anni dal rapimento in Siria del giornalista americano James Foley. La sua famiglia ha fiducia in Obama, nei servizi che insistono sulla soluzione certa: James sarà rilasciato. Poi un Twitter, “Un messaggio all’America”, come l’onda di uno tsunami invade il mondo: il deserto, figure nascoste da abiti informi e cappucci. C’è un corpo. E una testa appoggiata sulla schiena. È il corpo di James. È la sua testa, appena decapitata. Un ulteriore documento macabro sfuggirà alla censura compassionevole: l’audio dell’esecuzione. Diane Foley, dopo sette anni, era l’ottobre del 2021, ha voluto incontrare uno degli uomini accusati del gesto, Alexanda Kotey, ex cittadino britannico. “Perché?”, gli ha domandato dopo aver detto buongiorno. Il tuo nome vuol dire ‘difensore degli uomini’, ha aggiunto, e il tuo cognome ‘anima gentile’.

Un assaggio – Si risveglia nel buio dell’hotel. Una manciata di lampioni attraverso le tende sottili. Laggiù, in lontananza, Washington D.C.: città di verità, mezze verità, doppie verità, menzogne. Una verità è certa: suo figlio se n’è andato da ormai sette anni, e questa mattina lei incontrerà uno dei suoi assassini. La prospettiva le annoda i nervi in un groppo alla base cel collo. Non solo perché non ha la minima idea di cosa aspettarsi da lui: non sa bene nemmeno cosa aspettarsi da se stessa. Una sinfonia confusa. Compassione. Vendetta. Amarezza. Misericordia. Perdita. Clemenza. Ha pregato per tutta la notte, perfino più del solito. Ha implorato le potenze supreme. Ha esplorato tenebre e luce. Ha trascorso ore a chiedersi come chiamarlo. Alexanda. Alexe. Alex. Kotey. Signor Kotey. No. Signor Kotey no. Quello mai. Dopotutto lei ha settantatré anni, quasi il doppio di lui. (…) Non aveva creduto a tutte le sue risposte. Era sicurissima che avesse commesso cose orribili. Che avesse picchiato Jim molto più di quanto ammettesse. E aveva picchiato anche gli altri, selvaggiamente, ne era certa. Aveva ingannato se stesso per convincersi di non essere del tutto colpevole. Forse le aveva mentito: probabilmente il giorno dell’esecuzione lui era presente. Ma la realtà è che chiunque nella sua posizione avrebbe mentito, o avrebbe perlomeno tentato di riadattare la verità. E ogni verità finisce per essere riadattata.

Leggerlo perché – Diane Foley non ha scelto di raccontare il suo dolore per sfogare la rabbia, lo sconcerto, l’odio. Il motivo principale della disponibilità a condividere con Colum e con il mondo l’omicidio di James è stato James, il ricordo della professione che James aveva abbracciato. James era un giornalista, uno che andava nei luoghi dove le cose accadono: “Se c’era qualcuno che avrebbe voluto essere presente per riferire della propria morte, quello sarebbe stato lui. Non per celebrare o compiangere se stesso, no, ma per scavare quell’evento sottopelle, nella realtà più profonda di ciò che il mondo stava diventando, e perché”. Leggerlo perché questa è una Lettura. Laica e sacra, educativa in senso etimologico. Impossibile per chiunque abbia avuto modo di seguire la storia in diretta di James e la sua fine, quei suoni primordiali di vita impastata di morte violenta, non pregare un qualunque dio mentre le pagine scorrono, impossibile non cercare la mano di Diane da stringere. McCann si conferma immenso nell’indagine con un lavoro di ricerca dei fatti attentissimo e con una interpretazione paziente della ricaduta di questi sul mondo (quello di una madre, quello di una comunità, quello dei blocchi geopoliticamente distanti) all’altezza delle migliori scuole sociologiche di raccolta di storie di vita.

Colum McCann (con Diane Foley), Una madre, Feltrinelli

Traduzione di Marinella Magri

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