Tiziana Pasetti
Trama – Si chiamava URSS, Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, un posto immenso che si prendeva lo spazio praticamente di mezzo globo terrestre sorto nel 1922 sulle ceneri dell’impero russo. Quindici stati, quindici culture diverse, lontanissime l’una dall’altra. Un solo ‘centro’ per provare a bloccare, non senza conseguenze drammatiche e oppressive per le popolazioni, la potenza a stelle e strisce. Negli anni ’80 la dissoluzione del progetto di Lenin è tangibile: Anya e Milka sono due adolescenti, amiche del cuore, di quell’Unione bislacca non hanno vissuto la nascita della quale sentono parlare con toni accorati gli adulti. Loro hanno altro nella testa, hanno la giovinezza, hanno la musica, hanno i sogni. I giorni della loro adolescenza passano con velocità e lentezza, divisi tra campagna e città, quella Mosca superba che fa da sfondo al tempo condiviso con i loro compagni di classe, Trifonov e Lopatin. Un avvenimento tragico sconvolge la loro vita, scrivendo per la prima volta una parola che si ripeterà in continuazione: fine. Anya emigrerà negli Stati Uniti ma un giorno farà ritorno a casa e a Mosca rivedrà il suo vecchio amico Lopatin. Tutto è cambiato. Tutti sono cambiati. Ma la memoria ha conservato radici salde.
Un assaggio – Eravamo a metà del nostro ultimo anno quando Černenko si ammalò gravemente e poi morì. Quando Gorbačëv, detto Michail il Marchiato, divenne Segretario nel marzo del 1985, il nostro paese era ormai solcato dal dubbio e dalla sofferenza. Uno dopo l’altro, avevamo seppellito i nostri leader comunisti e ci aspettavamo che neanche Gorbačëv durasse a lungo. Alcuni cominciarono a citare Nostradamus e la Bibbia, affermando che in entrambi si diceva che Michail il Marchiato sarebbe stato l’ultimo governante della Russia. Altri lo chiamavano il messaggero del Diavolo – per via della macchia a forma di fegato che spiccava sulla sua fronte – e lo consideravano destinato a calpestare e distruggere il nostro paese con i suoi zoccoli di pietra. I miei genitori diventavano ogni giorno più torvi. Tanto per cominciare, si chiedevano se nel giro di un anno avrebbero ancora avuto un lavoro, e poi non erano sicuri di trovare il proprio posto nel nuovo mondo che Gorbačëv era determinato a costruire sulle macerie di quello vecchio. Dicevano che sarebbe stato come dover imparare di nuovo a camminare dopo essere stati in coma per quasi settant’anni. Quella primavera avevamo quasi diciassette anni, e il nostro vocabolario si era arricchito di due parole, perestrojka e glasnost’, e il nostro esame di storia stava per essere cancellato. A quanto pareva non avevamo più una storia; il passato del nostro paese richiedeva revisioni drastiche, se non vere e proprie riscritture. «Amate questo momento, perché non si ripeterà mai più», ci disse mia madre un giorno quando tornammo da scuola.
Leggerlo perché – Perché è un romanzo di formazione che ci porta a contatto con una generazione di giovani che si sono visti togliere tutto in nome di ideali politici altisonanti ma in realtà svuotati di ogni significato umano. Tendiamo a compiere un errore grande quando osserviamo lo scacchiere del mondo e lo giudichiamo in rapporto ai governanti, gettiamo un velo poco pietoso sui popoli, sui cittadini, sulle gente. Romanzi come questo, scritto da una donna che ha dovuto lasciare la sua casa, ci fanno ritrovare la chiave della compassione. Leggere, non dimentichiamolo mai, è porsi in uno stato di ascolto, è riconoscersi nella diversità dell’altro, è ridimensionarsi.
Kristina Gorcheva-Newberry, Una vita per noi, Lindau
Traduzione di Thais Siciliano
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