L’articolo Profumo di agrumi (su Confidenze in edicola adesso) mi ha ricordato il rapporto di amore e odio che mi lega a limoni, mandarini e arance.
Parto velocemente dai limoni. Del tutto banditi dalla mia cucina (quando vedo gente spremerli sui fritti rabbrividisco), rappresentano il mio modo per iniziare la giornata all’insegna della salute. Infatti, prima della colazione bevo il succo fresco allungato con acqua calda. E se ogni mattina l’acidità del beverone rischia di farmi schizzare gli occhi fuori dalle orbite, sento comunque di aver coccolato il mio organismo. Il che mi permette di buttarmi sulla prima sigaretta con la coscienza a posto.
Il discorso è diverso per i mandarini. Che compro solo se ho gente a cena visto che, sulla carta, non ne vado matta. In realtà, quando mi capita di mangiarli mi accorgo che non sono niente male. Inoltre, scoprendoli ogni volta leggeri, rinfrescanti e poveri di calorie, mi dico che dovrei considerarli un’alternativa ai dolcetti trasudanti burro e zuccheri davanti alla tivù.
I buoni propositi, però, si infrangono al supermercato. Dove il carrello, neanche fosse animato da una vita propria, snobba il settore della frutta e scivola verso quello ben più godurioso dei biscotti. Per poi bloccarsi come se gli avessero messo le ganasce alle ruote.
Va molto meglio, invece, il rapporto con le arance, adorate nella stagione invernale perché sono davvero multitasking: si possono mangiare in tempi sprint a spicchi. Con calma, elegantemente tagliate a fette. Inserire nelle macedonie (fanno un sughino dolcissimo che il limone si sogna). Oppure nelle insalate.
Ma non è tutto. Questi agrumi garantiscono dissetanti e salubri spremute. Che io, in preda a una tirchieria allo stato puro associata a una (più edificante) attenzione ai valori nutrizionali di ciò che inglobo, contemplo solo tra le mura domestiche.
Sì, perché non tollero il prezzo allucinante di un succo d’arancia fresco al bar (a volte rasenta il costo di una coppa di champagne millesimato). Ancora più assurdo quando in un locale ti propinano la spremuta preparata alla mattina.
Infatti, non ci vuole un genio della scienza alimentare per sapere che quei sorsi cari come il fuoco non contengono neanche un’ombra di vitamina C, notoriamente labile e quindi ormai volatilizzata. In più, il barista che con il bastoncino smuove il liquido nella brocca per sollevare dal fondo la parte sedimentata mi fa tanto cuoco della mensa militare. Intento a rimestare il rancio, pensando di trasformarlo in un piatto da chef stellato.
Ecco, allora, che le arance le riservo alla mia cucina. Dove qualche mese fa ho addirittura azzardato un colpo di scena che si è trasformato in un’esperienza nefasta. Decisa a preparare con le mie manine sante le bucce candite ricoperte di cioccolato, considerando gli innumerevoli “lasciare riposare” riportati nella ricetta ho lavorato più di 48 ore. Alla fine delle quali avevo sotto gli occhi pietose fettucce mollicce nella metà arancione. E dure come sassi in quella con il cacao (dove non si era staccato!!!).
Ovviamente, non ho obbligato nessuno a mangiarle. E poiché a nessuno è venuto in mente il gentile gesto di assaggiarle (chissà perché!), fedele al credo “non si butta via niente” le ho fatte fuori tutte io. Infilando in bocca le scorzette viscide. E leccando subito dopo la crosta di cioccolato cementata sul piatto. Una patetica strategia per avvicinarmi alla miscellanea di sapori garantita dalla migliore pasticceria.
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