Il 9 maggio del 1978 viene ritrovato a Roma il cadavere dello statista. Un omicidio che segna il momento più tragico degli anni di piombo e la chiusura di un rapimento iniziato 55 giorni prima. Con un massacro
La breve via Michelangelo Caetani, stretta nel dedalo di strade romane tra via delle Botteghe Oscure e la zona di Piazza del Gesù, deve il nome alla famiglia del bel Palazzo Caetani, che vi si affaccia ed è legato non solo alla storia del Vaticano ma pure a quella della capitale anche per l’opera culturale dell’americana Marguerite Chapin (sposata con l’aristocratico Roffredo Caetani). Giornalista, collezionista d’arte e mecenate, per diritto matrimoniale principessa di Bassiano, duchessa di Sermoneta, abitò nel palazzo dal dopoguerra alla morte, nel 1963, a 83 anni. Dal pomeriggio del 9 maggio 1978 via e palazzo s’intrecciano con la storia d’Italia per un solo tragico motivo: il parcheggio della Renault 4 rossa targata Roma N56786. Nel bagagliaio, un corpo raggomitolato avvolto in una coperta di lana. Il poeta Mario Luzi gli dedicherà questi versi: “Acciambellato in quella sconcia stiva/ crivellato da quei colpi/ è lui, il capo di cinque governi,/ punto fisso o stratega di almeno dieci altri,/ la mente fina, il maestro/ sottile/ di metodica pazienza”. Lui è Aldo Moro, ucciso all’alba a colpi di mitraglietta dalle Brigate Rosse. Avrà funerali privati, suggellati da un comunicato della vedova e dei figli: “La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la Storia”.
OPERAZIONE FRITZ
Quarant’anni sono pochi per invocare il giudizio della Storia sullo statista assassinato, le generazioni che hanno vissuto (e ricordano perfettamente) i giorni fra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 sono ancora giovani, tutto lo spazio della narrazione è ancora occupato dalla cronaca, alimentata da inchieste, testimonianze, rievocazioni e “rivelazioni” soprattutto in occasione degli anniversari. In base a una giusta ma spietata legge del giornalismo, la scena è sempre dominata dai cosiddetti protagonisti: parlano quasi soltanto gli uccisori che, in quella primavera, avevano un delirio e lo chiamavano sogno, cambiare la storia d’Italia con una tale dimostrazione di forza militare da far presupporre un retroterra di grande adesione politica.
Rivediamo il film di quell’agguato, nome in codice “Operazione Fritz” (un derisorio gioco fonetico dei brigatisti sulla tipica ciocca nei capelli di Aldo Moro, la frezza bianca): nella sua atrocità racconta un’Italia che i terroristi volevano portare in una guerra armata e che li sconfisse dimostrando, in una guerra di nervi, il loro isolamento e la loro inconsistenza come controparte. L’operazione Fritz è l’ultimo atto di una lunga preparazione, alla fine agevolata dalla constatazione che il leader democristiano, quando esce di casa, è sì scortato ma segue percorsi abitudinari.
IL SEQUESTRO
Il 9 maggio Aldo Moro siede in una delle Fiat 130 blu che ha disposizione, insieme al caposcorta, il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, detto Judo, suo amico da quindici anni, e all’appuntato Domenico Ricci, alla guida. Gli guarda le spalle un’Alfetta bianca, guidata dalla guardia Giulio Rivera, a bordo il vicebrigadiere Francesco Izzi, chiamato all’ultimo momento a sostituire un collega poliziotto, e la guardia Raffaele Jozzino: con Rivera è il più giovane del gruppo, 23 anni lui, 24 Giulio. Alle 9 e due minuti le due auto sono a uno stop in via Mario Fani, che hanno raggiunto secondo protocollo, cioè correndo. Quella regola, il caposcorta la conosce bene e la fa rispettare: la velocità è un’assicurazione sulla vita. Il resto è un optional, tanto che l’armamento a bordo è ridotto al minimo, anzi trascurato. La moglie del maresciallo Leonardi racconterà che quel mattino il marito aveva portato via da casa un po’ di pallottole («Non si sa mai» aveva detto). Vuol dire che altrimenti avrebbe potuto contare solo sui colpi nel tamburo della sua rivoltella che, comunque, non portava addosso. Forse Leonardi passerebbe di forza anche allo stop, ma un’auto con targa diplomatica gli si mette di colpo davanti e si ferma. Alle 9 e cinque già tutto è finito. Un commando ha sparato più di 90 colpi di mitra e di pistola, Leonardi muore subito, Ricci, sotto il fuoco, fa in tempo solo a tentare di disincastrare l’auto dalla trappola, soltanto Jozzino riesce a reagire, scendendo dall’Alfetta, mentre i colleghi vengono falciati (Izzi sopravvive per poche ore, muore all’ospedale): ma non ha il colpo in canna, deve armare la pistola. La sfida è impari: Jozzino riesce a sparare ma cade subito. “Cade riverso a terra, le braccia spalancate, la faccia giovane rivolta al cielo, la pistola a un metro dalla mano protesa” scrive Miriam Mafai nel suo reportage per Repubblica. Pochi minuti dopo le 10, i terroristi telefonano all’agenzia Ansa: «Questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della Dc Moro ed eliminato le sue guardie del corpo, teste di cuoio di Cossiga». Ma quelle “teste di cuoio” (che in altri Paesi corrispondevano in effetti a corpi speciali, addestratissimi anche a uccidere) erano, in via Fani, un piccolo gruppo rispetto al commando dei terroristi e l’inferiorità numerica era stata accentuata dal fatto che, su cinque, due avevano le mani sul volante. Vantata, allora, come un’azione militare di geometrica potenza, fu un massacro. Giampiero Mughini in uno dei suoi libri autobiografici (Dizionario sentimentale), ha scritto: “Decisero di uccidere, perché poi il mondo ne sarebbe venuto migliore. Razza di bastardi”. Non c’è ragione di cambiare questa sentenza, anche se è giusto che la Storia racconti quel che avvenne e che tempi furono quelli degli “anni di piombo”.
L’ULTIMO ATTO
Andrà ricordato, perciò, come in via Caetani terminò la vicenda iniziata 55 giorni prima in via Fani, con quell’atroce comunicato che il 5 maggio annunciava la fine: “Concludiamo la battaglia iniziata il 16 marzo eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato”. La vecchia Renault parcheggiata contromano, il muso rivolto verso via dei Funari, cancellerà, il 9 maggio, ogni speranza.
Il corpo di Moro, nel bagagliaio, ha il petto squarciato da 11 colpi. In queste pagine non ci sono i nomi dei brigatisti. Studiare e conoscere è dovuto ai giovani, a tutte le generazioni a venire, ma seppellite i nomi degli assassini. Sarà la loro condanna più severa: nessuna delle loro azioni ha davvero cambiato qualcosa, pensavano di essere Titani, andrà sempre ricordato che sono rimasti più piccoli del nibelungo Alberich. ● © RIPRODUZIONE RISERVATA
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