“Pensando alla sua famiglia, Amos sentì l’amarezza salirgli alla gola. Perché la sua famiglia non aveva mai avuto un padre. La madre, Vincenza, contadinella orfana e bellissima, era stata acciuffata ancora minorenne da un signore che al paese aveva terreni, case e fattorie. Una relazione lunga, che aveva dato un frutto immediato: Massimiliano. Una relazione lunga, che pareva spegnersi nell’inverno, quando il signore partiva per terre lontane, e si riaccendeva l’estate, quando il signore riappariva per vedere le sue terre, i suoi poderi, le sue ricchezze. E a distanza di sette anni era nato lui, Amos. Aveva sperato, allora, Vincenza, che l’amante la sposasse. Ingenua e fiera, aveva pensato che due figli, maschi per di più, dovessero invogliare l’amante a fare di lei una moglie. Ma l’amante aveva detto: «Non sposerò mai una contadina». (…) «Va bene. Basto io per i miei figli». Aveva lavorato come un uomo. Tenace, cocciuta, con una ostinazione da mula e un’astuzia da volpe. Qualche anno era stato duro. Qualche altro, buono. Tutti gli anni tristissimi per lei che era ancora giovane e molto bella e doveva difendersi dagli uomini che la credevano una preda facile e non capivano che lei aveva amato una volta sola e per tutta la vita”.
Il primo romanzo di Liala l’ho letto a dodici anni, a Ostia. Erano le estati grandiose e infinitamente lunghe, quelle al mare da giugno a settembre. Papà era rimasto in paese a lavorare e io, mia madre e mia sorella partimmo insieme alla signora Tina: la casa al mare sua e di suo marito l’aveva disegnata proprio mio padre, quando io neanche ero nata. Splendida, tutta bianca, con ampie finestre, immersa in una pineta privata dal profumo inebriante. Di quei giorni ricordo quattro cose: i pranzi a base di pomodori col riso, i bagni al mare quando il sole stava per tramontare e l’acqua era caldissima, le amache sparse intorno alla casa, la parete piena di libri di Tina. Un giorno, pioveva e niente spiaggia, avevo finito di leggere i miei giornalini (Cioè, Dolly, Topolino e Geppo) e anche i libri che mi ero portata da casa. Mi cadde lo sguardo su un libro appoggiato sullo schienale di un divano, quello vicino alla libreria. Un viso di ragazzo, uno di ragazza, moro lui bionda lei, un campanile. Mia sorella e mia madre in edicola acquistavano i fotoromanzi e anche i libri Harmony, pensai fosse qualcosa che apparteneva a quei discorsi lì, roba d’amore, roba che a dodici anni – anche i dodici anni di cento anni fa – è come il miele. Divorai le quattrocento pagine di Amata, la storia di Vincenza e Massimiliano e Amos, della tenuta ‘La Rocca’, di Foula e Amata, in quattro giorni, i giorni che furono di pioggia e da casa praticamente non uscimmo mai. Era ancora giugno, anche se sul finire. Liala divenne la passione di quella villeggiatura. Prendevo uno dei suoi romanzi dalla libreria, mi appropriavo di un’amaca e leggevo leggevo leggevo, rapita.
Voi lo avete mai letto un libro, uno dei settanta che ha scritto, di Liala? E la storia di Amalia Liana Negretti Odescalchi, o Liala, come volle chiamarla Gabriele D’Annunzio, la conoscete? Se la risposta è sì, non devo aggiungere altro, ci siamo capiti. Se la risposta è no, allora io vi invito a farlo. Leggere i suoi libri e leggere di lei. Liala è sullo stesso livello di Giorgio Scerbanenco, giganti della nostra letteratura. Non rosa, non giallo, oltre il noir, Amalia e Giorgio sapevano scrivere, erano dentro la capacità di creare storie e ricreare il mondo a loro contemporaneo.
Fate come ho fatto io in quella lontana estate. Anche se non piove, anche se non siete ospiti di Tina nella casa immersa nel profumo dei pini, a pochi passi dal mare.
Liala, Amata, Sonzogno
Ultimi commenti