“Mi sono sì e no sistemato in albergo che squilla il telefono. È Perry. Ho in mano il ranking più aggiornato, dice. Spara. Sei…il numero uno. Ho buttato Pete giù dalla vetta. Dopo ottantadue settimane al vertice della classifica, adesso deve alzare gli occhi verso di me. Sono il dodicesimo tennista a essere il numero uno nei due decenni da quando hanno iniziato a tenere una classifica computerizzata. Il secondo a telefonare è un giornalista. Gli dico che sono contento del ranking, che è una bella sensazione essere il migliore possibile.
È una bugia. Non è affatto ciò che provo. È ciò che vorrei provare. È ciò che ci si aspetta che provi, quello che mi dico di provare. Ma in realtà non provo niente”.
Oltre a essere un bravissimo romanziere è anche un giornalista serio. Talmente tanto serio da vincere un premio. Il più grande. Il Pulitzer. Come tutte le persone che sanno lavorare davvero e che non si lasciano comandare e annullare dal proprio talento non teme la seconda fila, non teme l’eleganza della morigeratezza.
Ascoltare, saper ascoltare, è un’arte difficilissima. Significa non interrompere, significa analizzare il senso della menzogna che ti viene affidata per giustificare un buon ottanta percento di vita. Saper raccontare quanto ti è stato affidato dopo averlo sfrondato, ricomposto, raddrizzato; saperlo raccontare è come scalare a mani nudi una parete senza la consistenza del reale. Due corpi fatti di materia diversa, una sfida che in pochi accettano.
Moehringer ha accettato e ha raccontato una storia: una cosa noiosissima, un personaggio insopportabile, il paradigma dell’egopatologia spinta fino ai massimi livelli. Il classico rapporto tra un padre malato che odia a tal punto la sua appendice infetta, un figlio che osa respirare da solo, da mettere in atto un castello di sevizie fisiche e psicologiche di rara astuzia, raffinatissima tecnica raggira legge e servizi sociali. Se ti capita questa maledizione, nella vita, sei fregato. Il tuo nome sarà osannato, di te si parlerà sui giornali e in televisione, donne e uomini faranno a gara per poterti anche solo sfiorare una mano. Ma se ti capita questa maledizione correrai una vita intera (10,97 metri di ‘strada’, questa la larghezza di un campo da tennis, per quasi 12 di lunghezza) per raccattare una palla grande poco più di una biglia sperando a ogni colpo di risvegliare un nulla che ti stritola.
È tremenda, la storia del povero Andre Agassi. Leggi di un uomo di quasi quarant’anni e lo vedi nella sua vera dimensione: un bambino spaventato, ansioso, mai cresciuto. Lo vedi con la testa chinata di fronte al padre/padrone. Lo vedi in un divorzio da una donna e in un nuovo matrimonio con una collega ‘madre’, severa, rassicurante.
Per fortuna la penna sana e salva di J.R.Moehringer, però. Che Agassi cita nei ringraziamenti a fine libro – chissà se almeno quelli li ha davvero scritti lui? – ma ha sempre ‘dimenticato’ di ringraziare durante le interviste (da bravo narcisista complessato che prende soltanto e mai restituisce, mai dona).
Per concludere, consiglio la lettura (in questo caso comica) a tutte le donne e a tutti gli uomini che hanno una relazione con un/una tennista dalla natura non sportiva ma compulsiva cronica. Che dire? Coraggio, vi abbraccio.
J.R.Moehringer, Andre Agassi, Open, Einaudi
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