“Il camino caldo della Casa di Pony, lo scoppiettio della legna, Miss Pony adagiata comodamente su una vecchia sedia e Suor Lane che mi porge una cioccolata calda e fumante dicendo: – Fa’ attenzione, Candy, è bollente -. Seduta davanti al fuoco, io non la lascio nemmeno completare l’avvertimento, mi porto la tazza alle labbra e finisco per scottarmi. (…) Miss Pony che scoppia a ridere, il sapore dei marshmallow arrostiti sul fuoco e fuori la neve che cade. Nell’ala separata dove riposano i bambini è ormai calato il silenzio, ma io so che non stanno dormendo: sono tutti in attesa che la neve si posi. Una volta che ci saremo ritirate, i piccoli si alzeranno silenziosamente per andare a costruire un grande pupazzo di neve, in modo da sorprendere le loro direttrici quando si sveglieranno la mattina successiva. Anch’io facevo così: con Annie e Tom, a costo di prenderci a pizzicotti per non addormentarci, restavamo svegli fino a notte fonda, aspettando che la neve si adagiasse sul terreno. Sono grata ai miei genitori per avermi abbandonato alla Casa di Pony: quella è la mia casa, un luogo dove tornare.
Mi alzo dalla scrivania e mi dirigo lentamente verso la consolle. Sulla parete, racchiuso in una cornice fatta a mano, c’è un dipinto a olio dalle dimensioni di 53 centimetri per 41. Lui l’ha posizionato in modo che sia visibile da qualsiasi angolazione. È stato proprio lui, alcuni anni fa, a trovarlo al mercato delle pulci di Londra. Che regalo meraviglioso mi ha fatto. Tra tante vecchie pitture a olio, gli è bastata una sola occhiata per capire che quella rappresentava la Casa di Pony”.
Le librerie aperte, anche durante il lockdown, sono state una salvezza, luoghi che al pari degli ospedali hanno soccorso forse non il corpo ma infinite anime alla deriva. Gennaio. Milano, Zona Rossa. In Corso Buenos Aires, nella mia isola di immensa libertà, ho alzato ad un tratto gli occhi e mi si è mozzato il fiato.
Quanto ho amato Candy Candy? Tanto. Tantissimo. Ricordo la televisione grande poco più di una scatola delle scarpe, arancione, con due manopole e un pulsante. Il pulsante serviva per accendere e per spegnere, la manopola di destra regolava il volume e quella di sinistra cercava le frequenze, il canale. Bianco e nero. Mia madre, mia sorella e io non abbiamo perso una puntata. E quante volte l’abbiamo rivista, anche quando in casa entrò la tv a colori, sempre con la stessa emozione, con lo stesso sincero affetto. Annie era identica a Roberta, la mia compagna dell’asilo, la mia compagna di banco in prima elementare, ancora oggi una delle figure più delicate nei miei pensieri e nel mio cuore. Mia madre e mia sorella adoravano Anthony, io mi innamorai – lo amo ancora – di Terence.
Keiko Nagita, a quarant’anni dalla creazione del manga, ha narrato in forma di romanzo Candy. Nella prefazione scrive di essere rimasta in contatto con lei sempre, di averla vista crescere, di averne osservato il trascorrere degli anni, lo svilupparsi della storia. Scrive che proprio Candy l’abbia invitata a raccontarla ancora. Non è un libro per bambini. È un libro per noi. Perché ci riporta indietro, ci riporta nelle nostre case di allora e poi ci accompagna lungo il tempo, lungo il tragitto. La scrittura è deliziosa. Avete letto Kitchen ma soprattutto Moonlight Shadow di Banana Yoshimoto? Ecco, vi ritroverete in quella delicatezza espositiva.
Preparate scatole di fazzoletti. Si piange, si piange tanto, si piange che è una meraviglia.
Keiko Nagita, Candy Candy, il romanzo completo, Kappalab
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